Con l'accusa di aver istigato a delinquere, i pm di Torino hanno chiesto 8 mesi di reclusione per lo scrittore Erri De Luca, che se incensurato, per la sospensione condizionale della pena, non sconterà. Chi più difficilmente avrà sconti sono quelli che pensavano con molta più convinzione di Erri De Luca che la Tav andasse sabotata. Lo pensavano tanto da aver agito. E comunque quelle dello scrittore erano parole pronunciate a fatti già avvenuti e condivise da moltissimi. Di certo, gli attivisti sono stati condannati a 142 anni di carcere. Loro non avranno un “Je suis sabotatore tav#,” né la campagna stampa, né niente. Né loro hanno affermato quanto detto da Erri De Luca il giorno in cui sono stati chiesi 8 mesi:
“Mi sarei aspettato il massimo della pena, invece sono stupito della differenza tra gli argomenti prodotti dall'accusa e un'entità tanto esigua della richiesta”.
Per quegli attivisti tutto si perderà – per quanto riguarda la comunicazione- nella grande confusa e controversa questione della Tav che per moltissimi resta essenziale: ci sono investimenti, interessi, soldi pubblici spesi (anche se male, poco importa: spesi). Alcuni come gli operai della Tav, a loro volta, lavorano sotto attacco tanto che scrissero una lettera aperta a Erri De Luca per “confrontarsi con noi” e per ricordare “un nostro collega ferito e un militare invalido per tutta la vita”. Etc. Per moltissimi altri la Tav è inutile oltre che altamente dannosa per la vita degli abitanti della valle. Questa categoria di No Tav latenti o di attivisti, che è sicuramente la prevalente, è quella che guarda con animo diviso le operazioni di sabotaggio: molti ritengono che siano astrattamente giuste anche se ne condannano la violenza, compresa ovviamente quella della polizia che non è stata poca, altri ritengono che siano necessarie e inevitabili e comunque giusto che qualcuno le compia. A qualsiasi prezzo.
Nessuno scrive però post o tweet o articoli in cui si inneggia alla violenza dei sabotatori. In genere ci si autocensura, sapendo che, viste le accuse di terrorismo, si potrebbe venire equivocati etc. e quindi se si fa, si fa sempre con cautela. Chi non si è affatto autocensurato è stato Erri De Luca che con le sue parole metteva in forma letteraria il gesto compiuto da altri e che ha significato il carcere.
Questo è il quadro che deve essere dato nella sua interezza se si vuole capire cosa sta accadendo. Le frasi incriminate, pronunciate dallo scrittore in un momento di scontri violenti in Val di Susa, con diversi feriti, e numerosi arresti, sono le seguenti:
“la Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti”; “hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa”; “resto convinto che la Tav sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare quest’opera”.
E del resto, ha detto De Luca in aula, che lui non aveva saputo delle moltov e della violenza:
“Il sabotaggio della Tav è necessario ma nel senso di ostruire, impedire l'opera. Quando ho rilasciato le mie dichiarazioni all'Huffington Post non sapevo si parlasse di molotov, ero a conoscenza soltanto delle cesoie servite a tagliare le reti del cantiere. Le cesoie sulle reti illegali ripristinano soltanto la legalità”.
Secondo l'accusa quel frasario inneggiante al sabotaggio corrisponderebbe a “un giudizio finalizzato a condizionare l'agire dell'altro”. Quanto e in che misura può essere vero che sia avvenuto un condizionamento fa parte dell' insondabilità della comunicazione e delle pieghe del diritto. Di certo, una volta intrapresa la strada del rinvio a giudizio, l'aula del tribunale di Torino è diventato un grottesco teatro di citazioni simil filosofiche e bibliche in punta di diritto tra avvocati e pubblici ministeri. Un miscuglio di linguaggi che non fa che ingigantire la colpa di aver solo pensato possibile un processo del genere.
La replica di De Luca alla vicenda, già da gennaio, è diventata un libretto dal titolo “La parola contraria” (edito da Feltrinelli) e che gli attivisti – manco a dirlo – hanno distribuito gratuitamente mostrando dei cartelli con su scritto #jesuisErri’, in riferimento al #jesuisCharlie divenuto la frase simbolo della libertà di espressione. Il processo in corso, pertanto, appare piuttosto l'incarnazione plateale di quella che si chiama l'“eterogenesi dei fini”: i pm stanno accusando lo scrittore di qualcosa che si vuole evitare che accada. Chi si sarebbe dimenticato subito di quelle parole, o le pensava già per conto suo, ora non fa che rimbalzarle sui social, in fondi dottissimi, in levate di scudi corali che stanno riempiendo le pagine dei giornali internazionali. Il Pm Antonio Rinaudo cita nella sua requisitoria proprio Primo Levi:“Abbiamo una responsabilità, finché viviamo. Dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno”. Non è mai molto astuto fare ricorso alla letteratura e a paladini del libero pensiero se si vogliono fare delle accuse al libero pensiero.
Di certo, potremmo dire che anche istruire un processo del genere non è male come responsabilità per i magistrati che vivono la più grande stagione del loro discredito.L'eco mediatica, lo schieramento per Erri De Luca è totale: dalle migliori coscienze alle più malevoli.Chi mai, tra i peggiori che inquinano la comunicazione (e in genere i più vigliacchi) tra giornalisti e politici che passano giornate a istigare “calci nel sedere”, botte, dare fuoco, affondare, fucilare, oppure a incitare le donne a “vendere il proprio corpo”, cittadini a non pagare le tasse il tutto sotto la tutela o della propria posizione o della “libertà di opinione” o della licenza di “provocazione” appoggerebbe il processo? Chi di quelli che – legittimamente – ritengono che la Tav sia una vergogna si schiererebbe mai contro un intellettuale coraggioso?
Come lo stesso scrittore afferma: “se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori dal suo controllo”. Tuttavia, viene anche da dire: se un intellettuale dice parole che non arrivano al cuore delle persone ma servono solo a comunicare se stesso, che intellettuale sarebbe?
Oltre a augurarci di cuore che la vicenda si chiuda nel modo più dignitoso per tutti, visto che il processo in sé è grottesco, il vero dibattito da fare è se le parole hanno ancora un peso, e se chi le pronuncia, e gode di una dose di notorietà e séguito, sia sempre così totalmente irresponsabile. Per i magistrati inquirenti le parole di uno scrittore hanno avuto enorme peso, in un momento in cui nessuno dice più cose scomode per noia, inedia, convenienza. Il che quasi rassicura: le parole hanno dunque ancora un senso. Per il versante intellettuale e oltre qualsiasi processo in un aula di tribunale però viene da chiedersi: ma si può sempre dire tutto in qualsiasi momento? Quale sarebbe il lavoro dell'intellettuale allora? Ovviamente il discorso vale, per esentsione, per tutti: dal noto politico, al noto cantante, al noto scrittore, al noto rappresentate delle istituzioni. Il limite non lo dovrebbe decidere mai la legge, ma le coscienze.