Emidio Clementi: “Ho scritto un romanzo borghese, restando coerente con me stesso”
Emidio Clementi è conosciuto ai più come voce dei Massimo Volumi, band seminale per il rock italiano, e presenza carismatica della scena indipendente della musica italiana. Ma Clementi, docente al'Accademia delle Belle Arti di Reggio Calabria, è anche uno dei pochi cantanti che ha una importante carriera letteraria alle spalle. Importante e credibile, cosa non sempre scontata e da qualche giorno è tornato in libreria con un nuovo libro, "Gli anni di Bruno", sempre con Playground, un romanzo corale, a episodi – ispirato, nella forma, a Susan Minot – che racconta dai vari punti di vista la famiglia formata da Sonia e Nazareno, i genitori, e Bruno, il bambino che seguiamo, nei vari racconti, nella crescita. Quella di Clementi è una cronaca familiare che racconta un nucleo con le proprie disfunzionalità, coi propri momenti di tenerezza, spesso in maniera spietata, senza edulcolorare, con le meschinità e le tenerezze. Sonia lavora fuori e Nazareno e Bruno vivono insieme in attesa di riunirsi ogni tanto alla madre, ognuno racconta la storia dal proprio punto di vista partendo dalla nonna, la madre di Nazareno, che ha l'onere di introdurre la storia, fino a Bruno, ragazzo sensibile, problematico come lo sono gli adolescenti e a modo suo ribelle. Ne abbiamo parlato con Clementi.
Partiamo dalle madri. Perché è un libro in cui ci sono due madri ed è un libro dedicato a tua madre, in qualche modo qui al libro in cui la figura è molto importante. Come le hai costruite le madri all'interno di questa saga e questa cronaca familiare?
Avendo ormai 55 anni, sto più dalla parte dei vecchi che dei giovani, però è vero che per costruire il libro ho sfruttato la mia infanzia e la mia adolescenza, che poi l'ho vista riflessa in quella delle mie figlie. E poi c'è anche la figura del marito oltre alla figura presa a prestito da mia madre che è un personaggio più che una persona in carne e ossa, che però ho sempre raccontato nelle mie storie. Sono stato molto attaccato alle gonne di mia madre prima di separarmene, però il modo di ragionare di mia madre e la visione del mondo che nello stesso tempo mi indispettisce quando lo sento raccontato da lei, è il mio, per questo quando racconto mia madre è un po' come se raccontassi il mio punto di vista sul mondo.
Che poi è un punto di vista più esterno, perché è il personaggio che torna di meno, rispetto agli altri che ritroviamo lungo tutta la narrazione.
Questo è un libro un po' a metà strada tra un romanzo e una serie di racconti, come se fosse un romanzo a episodi e quello su mia madre, Le nozze, non è nemmeno stato il primo che ho scritto, ma sono partito dai racconti in terza persona. A un certo punto mi sono ritrovato di fronte questo blocco in prima persona che non potevo non mettere all'inizio e, da un certo punto di vista, mi sembra anche la parte del libro più politica. C'è una visione anche politica in quello che dice la madre. E c'è anche un rapporto sempre conflittuale, come tutti i rapporti stretti, anche col figlio.
Mi interessava anche una cosa di cui si è parlato tanto in questi due anni, ovvero di come raccontare questa nuova realtà pandemica. Tu lo hai fatto inserendo all'interno la mascherina da una parte, oppure raccontando l'angoscia dell'isolamento. Come hai fatto entrare il reale in questo libro?
È un libro che è nato con il lockdown: a un certo punto mi sono trovato con questo meraviglioso primo lookdown – all'inizio è stato meraviglioso – perché ho avuto un po' di tempo che era veramente a mia disposizione, cosa che raramente capita. E poi ho pensato, riflettendoci anche con l'editore, come avremmo potuto far entrare nel libro questo momento. Ci siamo chiesti se una volta passato perdesse di forza, se sembrasse qualcosa di datato. Però nello stesso tempo se è vero che è un romanzo che racconta un arco di tempo, racconta anche dell'attualità, per questo l'ho inserito un po' discretamente. Mi piace la scena in cui madre e figlia escono per il paese, nella città deserta, vanno a vedere la vetrina degli elettrodomestici e però dà un po' una coloritura vagamente nostalgica e malinconica al racconto.
Gli anni di Bruno sono il racconto di una famiglia, una cronaca familiare, in cui poi si raccontano le paure dei genitori. Una situazione quotidiana in cui non c'è mito, non c'è mitologia. Mi interessa capire come nasce quel tipo di sguardo, da scrittore, sulla famiglia.
Se penso ai miei libri e penso, per esempio, a quello che forse è stato più di successo, "La notte del Pratello", in cui raccontavo di case occupate, di una vita marginale, o penso invece a un romanzo più nomade come "L'ultimo Dio", questo è un romanzo quasi borghese. Qualcuno magari può obiettare che c'è una scrittura che adesso è diventata comunque di un ambiente borghese. Ma in questo trovo una coerenza, se non altro perché io ho sempre descritto l'ambiente attorno a me e quindi in quel senso, è vero, l'ambiente è cambiato però il mio sguardo è sempre stato su quello che avevo attorno. Poi il racconto della famiglia uno può valutarlo un po' superficialmente come un cliché, ma io credo che sia un topos: ti ritrovi un microcosmo con delle tensioni contrapposte ma ugualmente forti. Perché in una famiglia c'è sicuramente l'affetto, c'è l'amore, c'è la gelosia, c'è il risentimento e credo che sia un classico che verrà sempre analizzato perché ti dà l'opportunità proprio di guardare più o meno tutti i sentimenti che poi ruotano nel mondo.
Da dove sei partito?
Il primo racconto che ho scritto è stata "La capriola" perché mi è sempre interessato il tema della paura, cioè se io penso alla mia esistenza penso a quella di una persona pavida, soprattutto da un punto di vista fisico: mi fa paura l'altezza, mi fa paura lo scontro fisico, facilmente potrei essere etichettato come uno pavido ma poi, quando racconto della mia vita agli altri spesso mi dicono: "Ma che coraggio, che incoscienza ha avuto!". Allora credo che non esistano nemmeno il coraggio o la pavidità ma esistono delle zone fragili in ognuno di noi ed era un po' questo che volevo raccontare. Poi è vero, Sonia e Nazareno sono uniti dalla paura e poi non la ritrovano, la ritrovano in parte nel figlio ma poi anche figlio non si capisce se è un pavido o un coraggioso. Però è vero che sembra che la prudenza faccia da collante in questa famiglia, ma poi nella vita, nei sentimenti c'è sempre qualcosa che… scarta. Era interessante anche un po' seguire questo scarto.
Narrativamente, come mai hai scelto di separare i due genitori e soprattutto di mandare via la madre e far restare il padre con il bambino, che meccanismo ti serviva costruire?
Per quello mi ha dato un grande spunto la mia esperienza di padre di due figlie, perché ho avuto un periodo in cui mia moglie lavorava fuori e io stavo spesso spesso da solo. Pensando alla mia esperienza mi sembrava interessante mettere un po' come figura di riferimento per il figlio il padre piuttosto che la madre, per avere anche un punto di vista più originale. Nella figura di Bruno c'è sia la mia adolescenza e preadolescenza che quella che poi ho visto nelle mie figlie.
Immagino che tutta la parte contemporanea, fatta di youtuber, follower, ecc l'abbia presa da loro. Hai chiesto consiglio?
A mia figlia più grande ho chiesto se alcune cose fossero giuste, se certi riferimenti erano esatti. Poi ho visto da parte sua un interesse, visto che parlavo anche di lei che mi diceva: "Non vedo l'ora di leggerlo". Poi quando il libro è uscito credo che sia stata vinta da una sorta di prudenza o dalla paura di trovarci dentro qualcosa che forse un po' l'avrebbe ferita o comunque inquietata. Il libro sta lì e mi dice che lo leggerà quando avrà voglia. Temo mia madre, però lei c'è abituata, s'è ritrovata già in altri libri.
Hai detto che prendi molto dalla tua esperienza, a un certo punto racconti del girovagare di Nazareno nei bad & breakfast con esperienze incredibili: immagino siano tutte storie vissute in giro per l'Italia a fare live, no?
È proprio così, parto chiaramente da una base solida di vissuto, di cose che conosco bene. Poi quando c'è una base solida posso posso arrischiarsi con l'immaginazione. Ma quelle due, tre pagine piuttosto anche ironiche, te lo giuro, sono tutte vere, accadute, non c'è niente di inventato.
Ho letto che per quanto riguarda le storie familiari ti sei ispirato o comunque avevi più influenze americane o sbaglio?
Potrei anche citarti Natalia Ginzburg però questa struttura in cui mancano i collegamenti l'ho presa a prestito da "Scimmie" di Susan Minot. Lì è un po' più centrato perché vedi sempre dei fratelli in scena e più o meno rimangono per ogni racconto. Però effettivamente i racconti possono essere letti anche separati uno dall'altro e quindi ho preso un po' in prestito da lei proprio questa struttura. Alla fine ho scritto tre romanzi, tre racconti, e mi sono sempre chiesto da che parte stia: è vero che per quanto riguarda il racconto lo sguardo me lo fa vedere nella sua interezza, mentre per il romanzo devi sempre tornarci sopra, lo perdi da qualche parte, devi operare un po' di montaggio e soprattutto ho sempre avuto difficoltà con le parti di collegamento. Allora mi sono dettodi tentare questa struttura, ma è stata una decisione presa a libro già in corso: quando avevo il racconto della madre, Le nozze, e La capriola, pensavo un libro di racconti, poi ho detto: "Ma continuiamo con questi personaggi, vediamo come si tengono insieme alla fine" e mi sembra che alla fine su quel colle dove si accendono una canna Bruno e l'amico non fosse un cerchio perfetto però un percorso il libro lo faceva. I libri che mi piacciono, poi, sono quelli in cui vai avanti da solo, mi piace un po' un finale aperto, un finale in cui puoi immaginare che fine fanno i protagonisti.
C'è un porsi in maniera diversa a seconda della struttura, quindi?
L'idea di scrivere un racconto mi tranquillizza, mi mette meno angoscia rispetto all'idea di star scrivendo un romanzo. Per quanto riguarda il tono, arrivati a una certa età è vero che hai un solco che è il tuo stile, poi io m'innamoro di altri scrittori ma prendere a prestito delle cose è più difficile perché poi torni sempre a quello che sai fare. Uno scrittore che mi piace molto, specialmente come scrittore di racconti, è Malamud, per come mette insieme amarezza e ironia, complicazioni della vita, però con una sua leggerezza che qui, forse più che in altri libri miei più drammatici, sento. Ci sono delle pagine, se non comiche, quasi, anche perché a me piace molto la leggerezza, i miei film preferiti sono commedie, ma non è un registro facile. Però ho già scritto La notte del Pratello, che era quasi un libro comico, e qui mi piaceva tornare su quel registro lì.
Mi dicevi di sentirti meglio, psicologicamente, nella forma racconto. Vale lo stesso anche per la scrittura musicale? Hai una comfort zone in quella misura più breve?
C'è stato un momento, in passato – ti parlo di "Stanze", e 2 o 3 pezzi di "Lungo i bordi", poi basta -, in cui la comfort zone è stata un po' l'atmosfera musicale. Solitamente comincio a scrivere il testo solo quando è stata abbozzata l'atmosfera musicale, è come se mi desse una stanza ammobiliata e posso vedere di chi sono i mobili, posso far entrare qualche personaggio, capisco già se un testo, per esempio, può essere scritto in prima persona. Quando è capitato che gli altri mi abbiano detto di partire dal testo mi sono sentito povero e nudo. Invece lavorare su un'atmosfera mi dà già molto.
Parlando di scrittura parli anche dei tuoi limiti, che rapporto hai coi limiti?
Deleuze diceva che secondo lui un artista è colui che riesce a rendere i propri limiti delle opportunità. Mi rendo conto che in alcuni momenti della mia esistenza e della mia carriera artistica li abbia vissuto proprio come dei limiti. Per esempio, in un disco sono molto attratto dalla voce cantata e non so cantare o dal grande romanzo però poi col tempo ho capito che la mia forza forse era un po' il romanzo storto, mentre col gruppo era qualcosa di un po' più al confine tra musica, reading, forse la mia cifra è proprio quella. Forse non sono uno scrittore classico, sicuramente non sono un cantante, però col gruppo e come scrittore ho preso un sentiero che è un po il mio e che mi dà forse un po' più personalità, diciamo così.
E invece trasformare un racconto come "Il nuotatore" di Cheever in una canzone, in un testo tuo, come come funziona? Quale Clementi entra in gioco?
Ti racconto questo aneddoto che però a casa fa ancora molto ridere. Mi ci sono un po' buttato, credo che la cosa più terrificante sia lo spazio vuoto, perché poi uno uno ci arriva dopo all'idea che quello è il mio stile, questo è il mio genere di storia. A un certo punto però il problema resta sempre riempire quella pagina vuota. A un certo punto, ripensando a quel racconto mi sono detto: butto giù due versi, vediamo se funziona. Era un omaggio a John Cheever, autore che mi piace molto, così ho cominciato a scriverlo, ma a un certo punto mi sono reso conto che la canzone era lunga 4 minuti e mezzo. Il testo era finito dopo 2 minuti, allora ho chiamato mia moglie e le ho detto che avevo fatto questa roba sul racconto di Cheever, però non sapevo come completarlo. Mia moglie lo legge e mi dice che non è tanto come posso completarlo quanto che le sembrava una sciocchezza prendere un racconto che già esiste e renderlo una canzone. Siccome mia moglie è sempre molto critica con me e a volte a vanvera, le ho detto: se mi dici così è una bella idea. Se adesso mi chiedi perché hai fatto quell'operazione? Ti potrei dire, per pura disperazione, perché mancava poco tempo all'uscita del disco e non ci avevo ancora abbastanza testi. Poi è qualcosa che funziona e ha funzionato, sempre nel nostro piccolo, per l'amor di Dio, però ha funzionato e ce lo prendiamo come qualcosa che ha funzionato.
Ti fermi mai a riflettere all'importanza che i Massimo Volume e tu come cantante e autore avete avuto per la musica italiana?
In quel senso un momento di consapevolezza è stato quando dopo tre, quattro anni che non abbiamo suonato più insieme siamo tornati per la prima data e abbiamo visto tutta quella gente che era arrivata solo per noi. stata una cosa che ci ha stupito, con tanta gente che diceva che gli eravamo mancati. Però è vero anche che la mia vita è piuttosto ritirata ma ogni tanto c'è qualcuno per strada che mi chiama: Mimì – perché mi chiamano quasi tutti Mimì -, Emidio. Però, per esempio, io insegno a Reggio Calabria ma solo due colleghi sanno che suono e scrivo, lì sono un professore dell'Accademia di Belle Arti come gli altri, e quindi, certo, ogni tanto ci penso; rispetto a dove sono partito, la mia vita è stata piena di sorprese, di belle cose.
Tipo?
Non avrei mai immaginato non solo di diventare un artista, ma per esempio adesso – visto che ho una certa età, appartengono a una scena ormai passata – mi posso giocare anche un certo carisma, no? Ora l'ho tagliata, ma di solito ho la barba bianca, qualcuno mi chiama maestro, ma te lo assicuro che ai tempi della scuola, del liceo, ero la persona meno carismatica del gruppo e quindi dopo un'adolescenza difficile la vita mi è sembrata in discesa. E quello è stato grazie alle cose che mi venivano in mente. Finisse domani, è stata una bella esistenza.
A chi pensa che abbiate avuto meno di ciò che forse meritavate che dici?
Sono sincero, io e il gruppo abbiamo avuto, più di quello che ci aspettavamo. Assolutamente.
Come si sopravvive all'attualità per una band come la vostra?
La nostra scena è sopravvissuta per un tempo infinito, lungo, molto lungo. Siamo stati attuali e poi a un certo punto però c'è stato un cambio, per questo penso che l'unica possibilità per quelli della mia generazione è crearsi una nicchia di inattualità, cioè qualcosa tipo, non lo so, posso pensare a livelli alti alla Tom Waits, uno che fa un disco ogni tanto fuori dal tempo.