Eco, il ricordo di Stefano Bartezzaghi. “Cultura e linguaggio, per lui un gioco serio”
Il semiologo si è spento nella serata di venerdì, nella sua casa di Milano. Una morte che lascia un vuoto immenso nel mondo della cultura, che chiude un'epoca e che, come tutte le cose che finiscono, dà inizio ad una nuova fase, di certo più povera e meno interessante senza Umberto Eco. Grande romanziere, appassionato e grande esperto di Medioevo, ma anche e soprattutto semiologo di fama internazionale: fu Eco ad iniziare la tradizione italiana degli studi semiotici con l'opera "La struttura assente", a cui seguì una lunghissima serie ininterrotta di studi e pubblicazioni sul linguaggio, la comunicazione e i suoi meccanismi più nascosti. Un rapporto profondo, quello di Eco, con il linguaggio e i suoi giochi: un modo ludico di affrontare il gioco serio della lingua e, in generale, di veicolare la cultura. Umberto Eco è stato prima di tutto un professore: nel 1975 ottiene la cattedra di Semiotica all'Università di Bologna, dove è stato anche direttore dell'Istituto di Comunicazione e Spettacolo del DAMS, dando poi inizio al Corso di Laurea in Scienze della comunicazione. È proprio al DAMS che Stefano Bartezzaghi conosce Umberto Eco: all'epoca studente, Bartezzaghi è figlio di Piero, il famoso enigmista, ed è oggi scrittore, giornalista e docente a sua volta presso lo IULM di Milano dove insegna Teorie della creatività e Semiotica. Studente di Umberto Eco fin dai primi anni universitari, e poi amico e collega, Stefano Bartezzaghi ci ha restituito un ritratto unico, molto vicino e sentito ma allo stesso tempo rappresentativo, del grande uomo e intellettuale che è stato Umberto Eco.
Lei è stato allievo di Umberto Eco al DAMS, e ha anche scritto la sua tesi di laurea con lui. Conserva ricordi particolari dell'Eco professore?
Cercare nei ricordi è sempre difficile. Alcuni appartengono alla vita privata, e Umberto Eco era un uomo abbastanza riservato. Quello che posso dire è che nell'incontrare un professore come lui nei primi giorni della mia carriera universitaria (mi ero appena iscritto, era una matricola quando l'ho conosciuto) mi aspettavo, da uno come lui che era già molto famoso, un atteggiamento da "professore" diciamo, distaccato. In questo Umberto Eco è stato sorprendente: aveva un modo di fare completamente diverso da quello che ci si poteva aspettare da un professore universitario. Questo lo si capiva da molte cose, non soltanto dall'ironia e dalla disponibilità che metteva nel fare di ogni lezione una specie di spettacolo, ma anche e soprattutto dall'impegno che metteva nello studio: una cosa che non sempre si trova in un professore, che metta a disposizione la sua erudizione, che in Eco era immensa, come se fosse una specie di servizio pubblico. È rimasta in me, e in tutti i colleghi di allora, una grande ammirazione per questo modo di essere, l'esatto contrario di quello superiore, superbo, e magari divistico tipico dei docenti di allora: e lui avrebbe potuto anche farlo, sentirsi un divo, perché insomma, il "Nome della Rosa" era già un successo planetario.
Un aneddoto in particolare la colpisce ora, a distanza di tempo?
Uno dei ricordi privati più cari che ho risale ai tempi della tesi: avevo studiato a Bologna, ma poi ero tornato a vivere a Milano. Dovevo scrivere la tesi e dovevamo vederci per la consegna dei capitoli. Viveva a Milano anche lui, così decidemmo di incontrarci: lui mi ha ricevuto a casa sua, e lì abbiamo discusso della mia tesi, poi ha aperto una bottiglia di vino, si è unita a noi la moglie e mi hanno anche invitato a cena. Un atteggiamento molto naturale che io riassumo nel fatto che noi studenti, almeno all'epoca, negli anni Ottanta, ci sentivamo trattati da lui come "colleghi juniores": qualcuno che era dentro l'università e che era alla pari.
Un rapporto che è cresciuto nel tempo…
Con me e con l'enigmistica Eco ha sempre avuto un rapporto molto particolare: era appassionato di anagrammi, rebus…una volta, quando ormai ero uno studente da anni, mi ha chiamato in cattedra, davanti a tutti: eravamo tornati dalle vacanze, e durante l'estate lui non era riuscito a risolvere un rebus della Settimana Enigmistica. Aveva perso il numero successivo e non conosceva la soluzione, e quindi sono dovuto andare lì a risolverglielo.
Quest'idea del linguaggio come "gioco", un approccio ludico alla parola e ai mille significati che essa può assumere è in effetti presente in ogni opera di Umberto Eco, dai romanzi fino ai trattati di semiotica.
Sì: per lui il linguaggio era una combinatoria. Una concezione che gli veniva certamente dalla filosofia antica e da Leibniz, che lo aveva sempre affascinato tantissimo: da un lato, questo tipo di approccio ludico gli è servito molto per elaborare le sue teorie, ma anche per "giocare". Questo aspetto giocoso in lui era sempre presente: il doppio senso, l'anagramma, la parola nella parola…era qualcosa che si fermava sempre a contemplare, pur sapendo che si trattava di cose "frivole", superficiali nella considerazione del vero significato delle cose, ma che per lui rappresentavano un modo per fare cultura senza mettere in campo grandi erudizioni. Un'erudizione che in Eco era immensa: c'è da dire, che a volte faceva dei giochi di parole che capiva soltanto lui.
Come non citare a questo proposito la traduzione degli "Esercizi di Stile" di Raimond Queneau…
Verissimo, e in effetti non si tratta di una traduzione, bensì di una trasposizione: nel lavorare al testo per renderlo dal francese all'italiano Eco ha dovuto cambiare lingua e ricostruire ovviamente da capo alcuni giochi di parole complicatissimi. Eco aveva visto in quest'impresa un divertimento, una sfida agonistica.
Pensando a tutto ciò che ha rappresentato per la cultura, viene da pensare: l'eredità culturale di Umberto Eco. Verrà raccolta, sarà possibile raccoglierla, le nuove generazioni come si rapporteranno secondo lei a questo personaggio?
Umberto Eco aveva un'opinione molto particolare del suo lavoro di intellettuale: una concezione che confidava non tanto della sua fortuna personale, quanto nella fortuna delle sue idee. Ha praticamente inventato la Semiotica, almeno in Italia, insieme a studiosi come Roland Barthes e Roman Jakobson e altri, negli anni '60, ed è grazie a lui che oggi esistono cattedre di Semiotica in tutte le università: pensiamo che quando io ero studente la sua era l'unica cattedra esistente di questo insegnamento. Questo tipo di diffusione è la cosa a cui teneva di più, e questa secondo me è la battaglia culturale da portare avanti affiché lo studio della comunicazione, centrale ed importantissima e non sempre promossa nei modi giusti, continui a vivere. Io penso che toccherà a noi, non solo agli allievi, ma anche agli operatori del mondo della comunicazione, ispirarci alle cose che Eco ha detto per lavorare per ad un linguaggio corretto, democratico e onesto, e soprattutto cosciente dei trucchi e degli inganni che talvolta vi si nascondono.
Soltanto un'ultima parola: patafisica.
Uno dei territori che lui ha esplorato più profondamente, tramite anche il suo amico e grande pittore Enrico Baj. Patafisico è quel modo di giocare con il sapere, di attraversarlo e conoscerlo con uno spirito puro e intellettualmente disinteressato, senza "riverenze" ipocrite. Per Umberto Eco questo era il modo giusto di porsi nei confronti del sapere: prendere in giro la realtà, scherzare con essa, come faceva con tutti i suoi amici e con tutto quello che lo circondava. Patafisica, un nome un po' buffo e un po' semiserio sotto cui passava quell'atteggiamento ironico e serissimo al tempo stesso nei confronti del sapere, che Umberto Eco ha sempre incarnato.