Il dibattito di queste settimane sugli strumenti più utili a salvare il mondo della cultura e quello della scuola si è schizofrenicamente concentrato sui singoli ambiti e poco, molto poco, sulla necessità di rimettere in dialogo tra loro questi due settori fondamentali per il futuro del Paese, per la qualità della sua democrazia, del suo benessere collettivo e, infine, del suo sistema economico. Durante il discorso di insediamento per il suo secondo mandato in qualità di Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte citò Edgar Morin parlando della necessità di un nuovo umanesimo per il nostro Paese. In effetti niente più del pensiero del filosofo e sociologo, cultore dell'interdisciplinarietà, sarebbe appropriato in questo periodo per ripensare su nuove basi il rapporto tra sistema culturale nel suo complesso (musei, teatri, cinema, biblioteche) e scuola pubblica. Qual era, per l'iniziatore del "pensiero complesso", l'alto compito del nuovo umanesimo nel mondo attuale?
Come fare a riunire i saperi delle varie discipline? Serve un pensiero complesso che permetta di unire ciò che è separato. Oggi serve un nuovo umanesimo… Come apprendere a vivere? La conoscenza non si ha con la frammentazione ma con l’unione. È necessaria una riforma della conoscenza del pensiero, un nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della persona e del pianeta. (…) Oggi i giovani sono chiamati ad affrontare un compito ancora più ampio: la salvezza del genere umano. Hanno una missione grande davanti a loro e dobbiamo educarli ad apprendere e a maturare una conoscenza adeguata ad assolvere a questo compito fondamentale a cui sono chiamati.
Se il Governo italiano in carica ritiene, nello scenario post pandemico, di muoversi tenendo fede ai riferimenti con cui ha ottenuto la fiducia del Parlamento italiano, dovrebbe valutare tra le diverse priorità delle sue azioni future (un futuro che potrebbe iniziare in coincidenza con l'inizio del prossimo anno scolastico) la proposta che da più parti, in questi giorni, si sta sollevando in maniera non ancora organica (qui l'intervento di Tomaso Montanari su "Caravaggio come compagno di banco" e qui quello di Antonella Di Nocera, docente e operatrice sociale, ex assessore alla Cultura del Comune di Napoli) per far incontrare, dopo decenni di separazione, i binari della formazione dei giovani e quello del sistema culturale.
Immaginando cosa? Fondamentalmente qualcosa che si avvicini a un grande piano per il rilancio di una scuola diversa dal passato, più umanista, verrebbe da dire, meno schiacciata su dinamiche iperspecialistiche tipiche degli ultimi decenni, che hanno ottenuto il risultato non di propagare maggior consapevolezza scientifica, bensì di mettere a puntino una platea di studenti col loro portfolio di micro competenze, avvezzi sin dalla tenera età (l'alternanza scuola-lavoro vi dice qualcosa?) alle logiche di sfruttamento e di precarietà del mercato del lavoro.
Come? In maniera congrua alla riorganizzazione di tempi e spazi che le nostre scuole dovranno realizzare da settembre in avanti, alternando gli allievi in classe, in ossequio alle misure di necessario distanziamento sociale.
Per fare cosa? Portare ogni giorno, attuando i necessari protocolli di sicurezza, i ragazzi delle scuole italiane, a turno, esattamente come tra i banchi di scuola, a far lezione nei musei statali, nei parchi pubblici, ad ascoltare musica nelle sale, a guardare spettacoli teatrali e film al cinema. In pratica, si tratterebbe di far scuola in maniera più strutturata e a un livello decisamente più alto (più formativo e meno intrattenitivo, per dirlo in sintesi) di quanto si è finora fatto con le divertenti ma troppo spesso sgangherate "matinée", il cui fine avrebbe un duplice scopo: valorizzare le discipline più strettamente umanistiche da un lato e far ripartire l'annichilito comparto dei musei vuoti, dei teatri e dei cinema chiusi.
A scanso di equivoci, questa riorganizzazione della scuola e del sistema culturale (che dovrebbe necessariamente adeguare la propria offerta in tal senso) non dovrà inficiare né i programmi scolastici in classe, né quelli previsti con la didattica a distanza. Benché su quest'ultimo strumento come panacea di ogni questione didattica e pedagogica vada operata una riflessione più profonda di quanto fatto finora. Perché dopo due mesi è chiaro a tutti, professori, studenti e famiglie, che la DAD, anche laddove funzionasse alla perfezione da un punto di vista infrastrutturale e delle possibilità di accesso alla rete, resta uno strumento parziale, incompleto, in alcuni casi persino dannoso per quanto riguarda la socializzazione e la formazione emotiva dei più giovani.
Naturalmente si dirà che il problema sono le risorse per muovere ogni giorno, da settembre e fino alla diffusione di massa del vaccino, centinaia di migliaia di studenti. Su questo è chiaro che sarà necessaria la volontà politica di chi decide e sceglie le direzioni su cui puntare per uscire dalla crisi nella quale ci troviamo da quando il coronavirus ha fatto il suo ingresso nelle nostre esistenze. Ma settembre è dietro l'angolo e i nostri ragazzi, dopo un anno scolastico folle e distruttivo come quello che si sta avviando alla conclusione, rischiano di trovarsi alla vigilia di un altro orribile anno di solitudine, chiusi nelle loro case, mentre i genitori sono a lavoro, cercando di apprendere contenuti disciplinari specifici attraverso un tablet o un pc, facendo a meno di tutta la principale parte di conoscenze relazionali che solo una scuola vera può dare.