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E se chiudere teatri e cinema fosse una buona idea?

E se non ci fosse alternativa alla chiusura di teatri, cinema e sale concerto? E se capissimo che la lotta da fare in questo momento non è tenere aperti i teatri, ma arrivare a forme di tutele per il mondo della cultura e gli operatori dello spettacolo? Con questo ritmo di contagio non c’è un’altra opzione rispetto al progressivo spegnimento della mobilità nazionale.
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E se invece non ci fosse alternativa alla chiusura di teatri, cinema e sale concerto? E se invece non ci fosse alternativa a mettere in campo misure che abbassino la curva del contagio evitando il collasso del nostro sistema sanitario? Siamo davvero sicuri che, in proposito, ci sia una scelta? Forse no, non c'è. E a breve potrebbe non esserci anche per altri settori economici, se non per l'intera economia del Paese. Ricordiamo sempre che la scuola, il baluardo principale della cultura nel Paese, dopo un gran parlare durato mesi, è difatti chiusa ovunque e la didattica di quest'anno sarà per gran parte (almeno il 75%) a distanza. E se quindi, capovolgendo per un attimo la prospettiva, approfittassimo di questa chiusura (arbitraria, dannosa, iniqua, sono d'accordo, ma altrettanto inevitabile, come per la scuola) per discutere il problema serissimo che si nasconde dietro questa chiusura e che la rende così drammatica? E cioè la mancanza di tutele per gli operatori dello spettacolo?

Ieri Roberto Andò, regista, scrittore, direttore del Teatro di Napoli, ha pubblicato una lettera in dissenso con le scelte del Governo. Tuttavia questa missiva può essere letta anche da una prospettiva diversa, al suo interno viene infatti denunciato con chiarezza quello che a mio avviso è il problema dei problemi. Scrive l'intellettuale palermitano:

La chiusura dei teatri, se confermata, avrà conseguenze gravi, sul piano del lavoro, e sul piano dell’insopprimibile voglia di elaborare il nostro vissuto attraverso l’immaginazione scenica. So che non tutti la pensano come me, personalità illustri come Thomas Ostermeier, alla guida del più importante teatro pubblico di Berlino, ritengono che in questo periodo i teatri debbano rimanere chiusi. Il regista è confortato dalla forza del governo tedesco e da una legislazione che in circostanze come questa garantisce ai lavoratori, siano essi attori o tecnici, un sussidio adeguato, e dignitoso, come d’altronde accade in Francia.

Probabilmente il punto centrale è questo: sostenere gli operatori della cultura con strumenti che non li considerino inessenziali, ma con interventi e leggi strutturali degne di un paese sviluppato. La verità è che la scelta del Governo di chiudere cinema e teatri (per questi due settori andrebbero fatti comunque discorsi molto diversi) appare ai più una scelta iniqua, perché lascia aperta tutto il resto e si accanisce con settori fondamentali per lo sviluppo del Paese, per l'idea di futuro che abbiamo e, soprattutto, perché in questi mesi è stato dimostrato che, rispettando i protocolli, il rischio di diffondere il contagio è praticamente nullo. A questo c'è da aggiungere che i nostri governanti, nel comunicare questa decisione, hanno evidenziato ancora una volta carenze comunicative, e quel tweet in cui il ministro Dario Franceschini si dichiara addolorato per la chiusura inevitabile non ha aiutato. Ma la ratio del provvedimento c'è ed evidente: bisogna azzerare la mobilità oltre il minimo indispensabile. Quindi, ancora una volta, scelta non c'è.

E con questo siamo alla querelle sul valore che attribuiamo ai teatri e alla cultura nel suo complesso, quanto essenziali sono alla nostra esistenza. Tenere i teatri aperti vale quanto tenere aperti i cantieri delle opere pubbliche? Per alcuni sì, per altri no, per me il punto è un altro. Nella mia vita libri, film e spettacoli teatrali sono beni essenziali come e più di un pacco di pasta, un viadotto funzionante, la connessione a banda larga e l'energia elettrica. Confesso il mio conflitto di interessi: con la chiusura di teatri, cinema e festival letterari, si ferma gran parte della mia attività.

Il punto è che ostinarsi a voler considerare il sistema-cultura (l'industria, come si dice con una brutta parola che rende bene l'idea) alla pari di altri settori economici strategici che non possiamo permetterci di chiudere è un errore e un danno che in questo momento facciamo innanzitutto alla cultura e ai suoi operatori. Innanzitutto, perché la cultura non deve misurarsi con il mercato. La cultura può generare un mercato, ma va tutelata con forme e strumenti diversi, altrimenti la partita è persa in partenza. I pacchi di pasta, i viadotti e la connessione a banda larga hanno strutturalmente più follower di uno spettacolo teatrale. In questo modo, non significa riconoscerne l'inessenzialità, significa separare le questioni e capire che ora è il momento di fermarsi. E lottare con serietà affinché ci siano per davvero tutte le misure di sostegno all'arte e a chi fa arte. Per arrivare a ottenere misure che siano quelle che Roberto Andò auspica nella sua lettera contro la chiusura. Oggi è il momento di lottare e resistere per farsi trovare pronti con la propria essenzialità domani.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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