“Dove abita la follia”: un reportage che racconta le donne, Napoli e la follia [Intervista al regista]
Porta la firma di Ugo Capolupo (regista napoletano) il bellissimo reportage che intende raccontare con delicatezza e levità le donne, la città di Napoli e la follia. Fuori dalla retorica e, al contempo, immerso nella migliore retorica della napoletanità legata al femminile. Dove abita la follia è un'opera che intende indagare la sostanza di ciascun tema senza la volgarità dell'affondo. Un'opera che colpisce senza ferire e commuove senza dilaniare, abilità rare di queste tempi.
Il reportage che oggi vi presentiamo in esclusiva rientra in un progetto più ampio, che muove i primi passi sul palcoscenico teatrale per poi espandersi sullo schermo cinematografico.
Ma andiamo con ordine.
Tutto comincia con due donne: Leslie Kaplan -newyorkese d'origine, parigina d'adozione- e Frédérique Loliée -attrice e regista teatrale nata a Parigi, molto attiva nel nostro paese. La Kaplan decide di scrivere una drammaturgia dal titolo Luisa è pazza perché venga diretta e interpretata (tra gli altri) dalla stessa Loliée, ed è così che il progetto comincia a prendere forma
Le due donne decidono, infatti, che oltre alla realizzazione dello spettacolo teatrale intendono realizzare delle video-inchieste da legare alle tre città in cui intendono proporre la rappresentazione del testo in questione, ovvero: Napoli, Parigi, Varsavia. Decidono poi di affidarsi, per ciascuna città, ad un regista del luogo, in modo da offrire sguardi sempre differenti e profondamente connessi con il "territorio" da indagare.
Per quanto riguarda Napoli, la scelta è caduta su Ugo Capolupo -autore e regista del documentario "Napoli 24" e del cortometraggio "L'ultimo rimasto in piedi".
Il testo/ "Luisa è pazza"
"Luisa è pazza" è un testo che si apre con una frase che racchiude un mondo: "Mi hai tradita, hai preso le mie parole…!", ed è anche sulle parole sul loro contorcersi, raccontare, mentire e sfuggire che si basa la narrazione della Kaplan. Parole che si intrecciano al vissuto delle donne di cui racconta, che a loro volta attraversano delle città (trasformandole e lasciandosi trasformare). E poi? E poi c'è la follia. Onnipresente. Il più delle volte a piccole dosi, distribuita sapientemente qua e là nella vita di tutti i giorni, nei luoghi, nei pensieri. La scrittura della Kaplan è potente, evocativa, intensa. E per rendere ancora più chiaro il disegno delle sue intenzioni autoriali, vi invitiamo a leggere -qui di seguito- la nota drammaturgica da lei stessa redatta per accompagnare il testo.
Cosa significa essere una donna qui ed ora, una donna «in preda» alle parole, al linguaggio e alla società di oggi? Niente è dato in modo definitivo, nulla può essere ridotto a «una categoria, una casella, o un caso». Questo il punto di vista dal quale porre e intendere, capovolgendola, questa domanda. E, a pensarci bene, questo interrogarsi ha molto a che vedere con la città e la follia.
Con la città, perché città è un altro modo di designare la nostra civiltà attuale, perché siamo abitanti delle città, ma anche perché la città è il luogo stesso dell’incontro, del possibile, della sorpresa, dell’inatteso. Con la follia, perché le nostre derive, e anche la nostra creatività di abitanti delle città passano per una forma di sfasamento, di scarto, di margine, di trasgressione, che ha a che fare con la follia, talvolta la follia da rinchiudere, ma anche quella ordinaria, che se ne sta lì, sotto, e che può sempre affiorare. Capire come la follia metta insieme gli aspetti del mondo comune, i consumi, lo spettacolo, il rapporto con l’identità e lo straniero, e come, seguendola, sia possibile comprendere questo nostro mondo in tutte le sue dimensioni e direzioni, guidati, come siamo, dalle parole, da tutto ciò che viene detto e da tutto ciò che non viene detto ma che esiste allo stato latente.
Leslie Kaplan
La "struttura" di ciascun reportage è più o meno la stessa. L’idea progettuale è figlia di Frédérique Loliée, mentre Leslie Kaplan è l’autrice delle domande che vengono poste alle varie donne. Le donne chiamate a rispondere ai quesiti sono persone che -in qualche modo- rappresentano le molteplici essenze della città in questione, il resto è affidato alla fantasia e alla sensibilità di ciascun regista.
Ugo Capolupo -dal canto suo- ha deciso di coinvolgere diverse anime nel progetto, come ad esempio i Kaf&Cyop, coppia di writer i cui meravigliosi quanto inquietanti disegni abbracciano l'intera città di Napoli. A loro è affidato la “grafica” dei titoli della video-inchiesta, loro le opere presenti nel film; opere che diventano un sesto protagonista del racconto. Le linee e i colori di Kaf&Cyop raccontano di animali (spesso antropomorfizzati) che si arrampicano, si allungano, leccano le mura della città; sgranano gli enormi occhi sui passanti mostrandosi in un tripudio di cromatismi e forme arrotondate, spesso gravide, come femmine bestiali che forte partoriranno il figlio di Rosemary o -magari- un essere di pura luce.
Di contraddizioni Napoli è piena. E -al di là d'ogni facile retorica- poche città al mondo possono vantare una simile corrispondenza con il mito di se stesse, poche posseggono la mescolanza di umori, odori e sensazioni proprie del capoluogo partenopeo. Lacrime e sangue, risate grasse e leggerezza convivono nello spazio di un basso. La pistola abita dirimpetto al più assoluto altruismo, la paura convive con la sempiterna sensazione che, in questa città, tutto sia -davvero e sempre- possibile. Del resto, mitologicamente Napoli è figlia della sirena Partenope: un essere metà bestia e metà donna, eppure da tutti considerata l'essere più bello del mondo del mare.
Nel reportage di Ugo c'è tutto questo e anche di più, c'è il suggerimento di interi universi al femminile che vengono ripresi nel loro offrirsi alla macchina da presa con assoluta naturalezza, che esplodono in un caleidoscopio di passioni, dolori, saggezze, cinismi, bellezze, giochi…
Dove abita la follia è un'opera epica. Epica nel senso più puro e antico del termine, un racconto che sta a metà tra l'eroico e il leggendario, attributi consustanziali alla femminilità, che è eroica e leggendaria ogni giorno, ma anche crudele -sì- proprio come Napoli. La regia di Ugo può essere definita "straniante" (per come Brecht intendeva il termine) vale a dire che si tratta di uno stile registico che non tenta di identificarsi con i personaggi raccontati, non scava, non esalta il loro dramma allo scopo di risvegliare nello spettatore il pathos (l'emozione) mandando a nanna il logos (la ragione), ma mostra, racconta, accompagna la narrazione e la guida verso la scoperta del tema che tutto lega: la follia.
E quando il film arriva a compimento, finisce che ci si innamora perdutamente di tutte quelle donne. Ognuna con la sua peculiare visione del mondo, ognuno a suo modo connessa con alcune delle mille anime di Napoli. E anche di lei, della bellissima Partenope, ci si innamora ancora. Di nuovo.
Una chiacchierata (a flusso di coscienza) con Ugo Capolupo
Anna – Come sei arrivato alla definizione di questo modello di racconto e alla scelta delle donne?
Ugo – Prima di arrivare alla scelta delle donne, ti dico che dopo aver visto quello girato a Parigi (che dura 45 minuti) e dopo aver ascoltato le interviste delle donne -una ventina- in cui si parlava di luoghi, follia, femminilità… Mi sono accorto che mi era rimasta una curiosità: vedere le loro vite. Non solo ascoltare quello che dicevano, ma vedere come e dove si muovevano. Nel film ambientato a Parigi non c'è la parte di reportage che ho girato a Napoli, quindi risulta come un'unica lunga intervista, molto interessante, che però non soddisfaceva le mie curiosità. Quindi possiamo dire che quello girato a Napoli, oltre ad essere un’inchiesta, è anche un reportage. Mi sono interrogato spesso sul perché di questa mia voglia di svelare parte delle quotidianità di quelle donne e, alla fine, ho scoperto che il riferimento che adottavo era "Comizi d'amore" di Pasolini, cioè un film sul tema della sessualità negli anni 60′ (non so se lo hai visto). Lì, al di là del tema e di come lo affronta Pasolini, la curiosità di sapere "di più" sulle persone intervistate viene soddisfatta per un semplice motivo: gli italiani di allora erano molto semplici e si capiva benissimo la loro provenienza sociale, il grado di cultura, di esperienza e il proprio vissuto… Gli uomini e le donne intervistate hanno un pensiero semplice, oggi invece, dato che c'è moltissima omologazione, questo aspetto non è più visibile e (secondo me) c'era bisogno di vedere le donne nella loro quotidianità per capire, per rendermele familiari… So che è un lavoro di 25 minuti, ma anche un breve racconto di una donna che balla o fuma in un locale mi racconta un pochino in più delle parole.
Anna – Ho visto comizi d'amore, ma non ci avevo pensato vedendo il tuo film, ho colto invece altri piccoli riferimenti… Ma potrebbero anche essere solo nella mia testa…
Ugo – Che riferimenti hai colto?
Anna – Non so, ad esempio mi era sembrato di vedere nelle due donne accompagnate dal ragazzo un omaggio a "Band à part"di Godard, però al contrario. Nel film di Godard ci sono due uomini che si accompagnano ad una donna, ed è lei la vera "scheggia impazzita" del gruppo, quella che anima le loro follie…
Ugo – Sì, in effetti il riferimento è quello, ma non sono io che forzo la citazione, sono proprio loro tre che sembrano usciti da un film di Godard.
Anna – Concordo, sembrano usciti da una pellicola Nouvelle vague, senz'altro… Torniamo alla scelta della donne?
Ugo – Innanzitutto ho sempre detto a Fred [Frédérique Loliée, n.d.a.] di voler raccontare quattro, massimo cinque donne, e poi ho lavorato sulla “selezione” di queste donne tenendo presenti vari aspetti. Quello più evidente, e anche il più importante per me, è l’aspetto "motivazionale". Ognuna delle donne che ho scelto ha una storia molto difficile alle spalle, ma non la racconto mai, tranne in un caso (quello di Antonella) la quale mi ha chiesto espressamente di poter parlare della figlia in risposta a una specifica domanda [Che cos'è per te una donna pazza? n.d.a.]. Per lei era terapeutico e mi stava bene, ma non mi andava minimamente di speculare sui dolori della loro vita. Ho voluto che le donne del mio racconto avessero questo genere di motivazione per via del tema, che è la follia. Ma per come la vedevo io, non dovevano essere donne non propriamente folli, ma che in un determinato momento della loro vita avevano attraversato la follia (perdona la semplificazione). Tutto quello che volevo era che fossero autentiche…
Anna – In effetti vengono fuori ritratti piuttosto profondi, anche se la profondità è suggerita, mai indagata, anche perché indagarla l'avrebbe (gioco forza) resa "superficiale" nel senso di "portata in superficie", esposta, e quindi appiattita…
Ugo – Per l'appunto. Considera anche che, prima di scegliere queste cinque donne, ho incontrato per più di tre settimane almeno venti donne diverse con venti storie differenti. Alla fine ho cercato di creare una differenza notevole, sia per età che per estrazione sociale che per provenienza (legata al quartiere) che per temi affrontati. Tutte le donne, infatti, hanno ricevuto le domande una settimana prima dell’intervista, e alla fine le donne che ho scelto le ho volute perché per ognuna di loro sarei stato capace di creare un film differente, ma avevo poco tempo. In ogni caso, venticinque minuti sono meglio di niente.
Anna – Ho apprezzato molto l'idea di suggerire il dramma e la follia, senza scandagliarli, senza renderli "volgari"
Ugo – No, infatti, tutto è affrontato con leggerezza, anche le situazioni più drammatiche. Persino il racconto finale di Antonella vive di assoluta leggerezza nonostante il dramma…
Anna – "Luisa è Pazza" parla di due donne che si accusano l'un l'altra suggerendo la presenza di una figura terza a cui assegnano tutti i connotati di ciò che non vorrebbero mai essere… E poi c'è un continuo appello a "dio", come interlocutore però, non come deus ex machina chiamato a risolvere un problema. Anche, sul finale, tu hai deciso di "chiamare in causa dio". Era un vincolo del progetto o è stata una tua scelta?
Ugo – No, la domanda su dio era una domanda legata al tema dello spettacolo, fuori dai temi trattati, per questo è messa nel finale, sui titoli di coda.
Anna – Ho sempre pensato alle città come se avessero un "genere proprio", non conosco Varsavia, ma ho sempre visto Napoli e Parigi come donne, Londra e New York (ad esempio) come uomini. Ecco perché quando mi hai detto che tra le tre città prescelte c'erano Napoli e Parigi e che tra i temi portanti c'erano donne e follie non ho potuto fare a meno di pensare che anche voi aveste fatto un ragionamento di questo tipo, cioè individuare città che fossero "femmine". È un film tutto mio?
Ugo – Molti autori, scrittori o registi associano la città ad una donna, lo fa Godard con "Due o tre cose che so di lei", lo fa Fellini con "Roma", e lo fanno tantissimi altri registi… Forse perché una città, come una donna, ha la capacità di accoglierti o di rifiutarti…
Anna – Questo è vero, ma a me non sembrano tutte donne le città. Napoli lo è sicuramente. Napoli è femmina. Ma New York, ad esempio, (pur adorandola) mi è sempre sembrata più maschile…
Ugo – Allen, invece, la associa ad una donna, sempre… Secondo me il “motivo” che ci spinge a fare ragionamenti di questo tipo (che è anche il mio approccio ad una città) è: dove sto bene? Dove sto male? Cosa m'incuriosisce di lei? Che grado di esplorazione mi consente? Un po' come mi accade con le donne… Ma in questo lavoro ho cercato anche un'altra cosa: ho provato a non ridurre tutto ad una tematica di tipo "femminista" o ideologica. Le donne del film parlano con il cuore più che con la testa, e quando lo fanno con la testa (come nella risposta a Cos'è per te una donna moderna? Ad esempio) risultano comiche.
Anna – Infatti, ho notato.
Ugo – Per quanto riguarda Maria (una delle componenti del terzetto in stile Band à part) m'interessava il suo modo di vivere la città. Lei, Claudio (che è un pittore) e Chiara (che studia architettura) applicano l'idea di " occupazione degli spazi vuoti della città". Studiano e giocano in posti impensabili, e uno di questi è l'aeroporto, dove abbiamo girato. L'aeroporto, infatti, è aperto tutta la notte è c'è anche il forno a microonde, il bagno con l'acqua calda e altri confort ai quali pensi solo se sei in viaggio. E così ho scoperto che loro tre sono continuamente in viaggio, ma all'interno della città.
Anna – Sono meravigliosi. Mi sembra rappresentino il lato più poetico ed evocativo dell'opera, o almeno così li ho visti io…
Ugo – Manuela, invece, la ragazza di Scampia, è una sorta di romantica guerriera, lei dà molta femminilità a tutto il film. Infatti, oltre ad essere la più giovane, ha un pensiero molto positivo rispetto alle altre
Anna – In lei, infatti, ho visto la passione sia sessualmente che esistenzialisticamente intesa.
Ugo – Sì, è un'appassionata, poi la metafora dell'acquario che fa in merito alle Vele è splendida. È una ragazza molto intelligente, e non ci sono lauree che tengano di fronte a tanta intelligenza. Ma devo dire che tutte le donne del film hanno un'intelligenza speciale, intrinsecamente connessa alla personale esperienza di vita di ognuna.
Anna – La donna bionda e riccia, invece, mi sembra rappresenti un misto di saggezza e disillusione, o di serena e consapevole rassegnazione rispetto alla vita e al dolore…
Ugo – Si chiama Giuliana. È un insegnate del Convitto Vittorio Emanuele. Come tutte le altre donne del film, non è difficile incotrarla per strada (sono tutte donne che vivono profondamente Napoli); la si vede spesso nei locali del centro storico. Lei sicuramente è più disillusa delle altre, e più cinica. Ma è anche straordinariamente chiara quando ti dice le cose, persino spietata a volte… Ecco, come vedi le cinque donne sono estremamente differenti tra loro, e te ne accorgi in quell'ultima domanda, quella su dio, dove abbiamo cercato di metterle assieme. Si erano conosciute venti minuti prima che accendessi la telecamera, eppure la relazione che traspare sullo schermo è quella di donne che si conoscono da tempo, e questo perché, anche se non si conoscevano, si sono riconosciute subito. Come dicevo, sono tutte unite da una fortissima motivazione e questo, soprattutto tra le donne, è elemento che accomuna.
Anna – Mi ricordi come si chiama, invece, la donna più "mistica" direi, quella con alle spalle il lutto impronunciabile (come lei -splendidamente- lo definisce)?
Ugo – Antonella. Lei invece è una romantica, è attrice e regista. La quotidianità raccontata da Antonella è molto forte, anche se non la rendo in maniera didascalica. Lei sta organizzando uno spettacolo in un centro di igiene mentale, lo stesso centro nel quale è in cura, e ha deciso che i suoi attori non solo dovevano essere gli stessi pazienti del centro ma anche gli psichiatri. Quando sono andato la prima volta da loro, ho visto una delle prove dello spettacolo che sta organizzando (lavorano sul La Tempesta di Shakespeare) ed era bellissimo… Peccato che, durante la giornata in cui potevo filmare, facessero solo esercizi e discussioni sui personaggi… Questa piccola storia di Antonella mi ha insegnato che chiunque fa teatro, oppure scrive un libro, o compie qualsiasi gesto che abbia a che fare con il "racconto", deve essere attraversato dalla necessità di raccontare. Non si racconta solo ciò che si vuole raccontare, ma inevitabilmente, si racconta se stessi. Ecco, quei pazienti di quel centro d'igiene mentale, quel giorno, per me erano i più grandi attori d'Italia.
Anna – E della donna nel bar, che mi dici?
Ugo – Si chiama Carine Jurdant, è la cantante dei Le Luop Garou. Lei è belga, l'ho scelta perché avevo bisogno del punto di vista di una donna straniera che, però, avesse vissuto a Napoli per molto tempo. Nel suo caso, parliamo di diciotto anni. Lei riesce a parlare di cose che a noi napoletani parrebbero scontate, ma non è mai banale mentre le dice…. Insomma, alla fine per me non è stato un semplice lavoro di inchiesta, ma un lavoro di esplorazione dove non mi interessava soltanto ciò che veniva detto, ma soprattutto chi era a dirlo.
Anna – Si sente che è così, anche perché nel caso di Carine (ad esempio) lasci che si perda nel discorso e lasci che lo spettatore lo veda, il che significa che lei e le sue parole erano più importante del "senso" del discorso.
Ugo – Si è divertente, anche perché è il momento in cui le presento, quindi -inevitabilmente- risultano subito simpatiche. Alla fine, ciò che contava davvero era stare il più possibile appiccicato a loro, perché sono loro che -attraverso le risposte- conducono lo spettatore all'interno del film, coinvolgendolo nelle proprie emozioni.
Anna – E adesso? Come la concludiamo questa chiacchierata? Ti è rimasto qualcosa di importante da dire che non hai ancora detto?
Non so perché, ma penso a Parigi. Devi sapere che il reportage che hai visto, l’ho montato a Parigi; ho lavorato due settimane per quattordici ore al giorno, compreso il sabato e la domenica, e la notte quando tornavo a casa (ero a Belleville), prima di rientrare, cercavo bar con un po’ di musica, per rilassarmi, ma non ne ho trovati, forse per mancanza di tempo o forse perché i parigini adorano stare ore e ore seduti ai tavoli a chiacchierare. Ti dico che per me la musica è fondamentale e due settimane senza è stata una tortura; l’ultimo giorno, prima di partire, avevo la mattinata libera e dato che Belleville è accanto al cimitero di Père-Lachaise sono andato a salutare Gioacchino Rossini: la sua piccola cappella era ricoperta… Invasa dai fiori, erano tutti fiori freschi, Gioacchino Rossini è l’uomo più vivo di Père-Lachaise. Volevo lasciargli qualcosa, non avevo fiori con me, avevo in tasca un braccialetto di cotone e l’ho legato alla porta di ferro, in quel preciso istante, dopo due settimane di astinenza, (e ti sembrerà folle) ho sentito una delle sue opere più famose: “La gazza ladra”.