I cinque incipit più belli della letteratura moderna
La teoria dell’incipit è una delle cose più suggestive che ci siano nella critica letteraria. Il succo, in effetti, è: icasticità e densità semantica. La capacità di condensare in pochi istanti l’impressione di ciò che il romanzo dirà. A vari livelli: stilistico, ideologico, filosofico. Nel vero incipit c’è già tutto. Proviamo a commetarne cinque, universalmente noti fra i più belli.
1. È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un'ampia fortuna debba avere bisogno di una moglie. ( Orgoglio e Pregiudizio, Jane Austen, 1813)
Questo inizio della Austen ci dice moltissimo dell’arte dell’incipit e, soprattutto, dell’arte di Austen. Se avesse enunciato un principio veramente universale sarebbe stato, come è ovvio, un inizio poco incisivo. Come, ad esempio, se avesse scritto “ E' una verità universalmente riconosciuta che tutti gli uomini sono uguali”. Invece, così, Austen, straniandoci con lieve ironia, catapulta già il lettore nel cuore stesso del suo stile, che consiste nel creare un ambiguità profonda fra la voce universale, sovrapersonale, del narratore, e la voce particolare: la psiche dei personaggi o, in questo caso, uno stralunato contesto sociale. La Austen, maestra del discorso indiretto libero, più di ogni altro scrittore al mondo è riuscita a giocare a questo gioco: lei è sempre dentro e fuori dal mondo che descrive, dentro e fuori la mente dei suoi personaggi, di cui estrapola l'ideologia, la cultura e la vita nell’astrattezza del suo narrare. Con questo incipit, ci chiede di iniziare questo gioco.
2. Molti anni dopo, davanti al plotone di esecuzione, il colonello Aureliano Buendìa si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva portato a conoscere i ghiaccio. (Cent’anni di solitudine, G. Garcìa Marquez, 1967)
L’universo di Cent’anni di solitudine vive della continua sovrapposizione, atemporale, degli eventi narrativi: è basato tutto sulla capacità dell’autore di far slittare il piano semantico della storia, fatto di immaginazione, ricordi, un mondo fiabesco e fuori dal tempo, sul piano sintattico cioè la linearità degli eventi storici, la struttura logica degli avvenimenti. E questo slittamento fra questi due piani è qui evidente: non solo, per raccontarci una storia, Marquez inizia con una persona che la ricorda anni dopo, ma se si osserva tutta la struttura della frase si scopre come la descrizione dell’evento è posta al centro, e si esordisce con Molti anni dopo lasciando il lettore in sospeso sul senso stesso dell’avvenimento di cui si narrerà. Se si aggiunge che l’evento è un’ aurorale, fiabesca ”scoperta del ghiaccio” si capisce come questo slittamento fra fantasia e coerenza, linearità, sia la cifra del romanzo.
3. Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo. ( Anna Karenina, L. Tolstoj, 1877)
Questo è il famosissimo incipit di Anna Karenina. Da notare che, al contrario di come accade spesso nei romanzi realisti, è una sentenza che precede il fiume della narrazione. Non solo la riassume, ma sembra quasi suggerirci con icasticità assoluta il senso stesso della riflessione di Tolstoj: la disgrazia è qualcosa di radicalmente personale e ci pone davanti all’alterità profonda di chi la prova. A maggior ragione se si tratta di Anna, donna vittima di un matrimonio infelice che non può nulla per emanciparsi.
4. Negli anni più vulnerabili della mia giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente.«Quando ti vien voglia di criticare qualcuno» mi disse «ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu». Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. (Il Grande Gatsby, F. S. Fitzgerald, 1925)
In questo altrettanto celebre inizio Fitzgerald sembra alienare per un attimo il lettore dalla storia, dando risalto al piano riflessivo del narratore: questo dà enorme spessore al fatto che il narratore è anche un personaggio e che l’essenza della storia potrebbe, per così dire, passare attraverso la lente traslucida della sua percezione. Ciò viene suggerito da una sottile analogia che, però, poi, lungo il romanzo, si rivela forte e potente: il rapporto col padre è un rapporto fatto di silenzi, ed è il paradigma di una relazione basata sul non detto fra due uomini. Come l’amicizia, ad esempio, fra Nick (il narratore) ed il suo triste amico, Jay Gatsby.
E, per finire, ecco uno degli incipit più belli della storia:
5. Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera. A volte, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che nemmeno avevo il tempo di dire a me stesso: «M'addormento». (Marcel Proust, La strada di Swann, 1913)
Per chi conosce questo romanzo è quasi superfluo notare che il primo sostantivo (nella versione originale è la prima parola, Longtemps) è anche l’ultimo con cui, dopo ben sette volumi, si chiude il romanzo di Proust: una delle opere di maggiore coerenza e più strutturate della letteratura occiedentale moderna. La prima frase ha poi la dote di fondere il lettore con il punto di vista dell’autore, diventando un ottimo paradigma di quei romanzi che creano un fortissimo straniamento nel lettore mettendo con forza una voce e, evidentemente, di un pensiero, al centro dell’attenzione. Questa fusione fra scrittura e pensiero è esaltata dalla forte capacità mimetica della descrizione, il personaggio descrive l’atto di addormentarsi e descrivendolo ci rivela l’importanza che tale percezione ha per la sua coscienza. La prima pagina della Recherche è quindi un esempio di come la forza della mimesi permetta al lettore di immergersi non solo in un universo di cose, ma di pensieri e (va da sé) ricordi.
Molti ne avremmo potuti citare: da Chiamatemi Ismaele. (Moby Dick di Hermann Melville) fino a Mi chiamo Walter Siti, come tutti. (Troppi Paradisi di Walter Siti) e Un grido s’avvicina, attraversando il cielo.( L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon) tutti bellissimi e famosissimi. Ma un posto d’onore merita, ovviamente, Era una notte buia e tempestosa. Pochi sanno da dove viene: si tratta di un romanzo gotico, Paul Clifford, dell’ormai dimenticato Edward Bulwer-Lytton, che lo compose nel 1830.