David Moss: sperimentazioni vocali alla Biennale Musica
David Moss porta alla Biennale Musica un esperimento in cui al suo lavoro di perfomer vocale si affiancano gli interventi elettronici di Francesco Giomi (direttore di Tempo Reale, centro di ricerca musicale fondato da Luciano Berio) e Francesco Canavese (parte, con lo stesso Giomi, del duo elettronico SDENG).
L’artista statunitense vanta un passato di collaborazioni celebri: da Luciano Berio a Uri Caine, da John Zorn al Quartetto Arditti passando per Carla Bley e Bill Laswell, David Moss ha attraversato generi musicali differenti arricchendo in maniera eclettica il proprio bagaglio culturale. A queste esperienze va aggiunta una marcata indole da perfomer che lo ha portato a strutturare il proprio show come un unico, lungo racconto, completamente concentrato sulla varietà delle sue personali capacità vocali (quattro ottave e mezzo di estensione e una grande varietà timbrica) e sul lavoro elettronico di amplificazione, elaborazione e campionamento della voce che moltiplica le possibilità espressive del mezzo, in perfetta sintonia con il titolo della Biennale Musica 2013: altra voce, altro spazio.
Lo spettacolo di David Moss ci rimanda con una certa semplice intuitività a quel lavoro sulla voce che anche in Italia, dagli anni sessanta e settanta, ha visto l’estremo interesse di grandi talenti: dalle creazioni del già citato Luciano Berio allo studio vocale di Demetrio Stratos, grande sperimentatore e cantante degli Area, fino al lavoro sulla "macchina attoriale" che in teatro ha visto molteplici applicazioni e di cui si è reso vero e proprio teorico Carmelo Bene.
L’amplificazione è un ingrandimento che lascia scomparire i contorni, che mostra ciò che è oltre la scena, l’oskenè. L’orecchio ascolta, ma anche l’occhio ascolta. Carmelo Bene
Dunque voce che diventa corpo, che evoca, che apre finestre nella memoria, che crea infinte stanze virtuali nella mente degli spettatori. David Moss percorre questa strada già battuta frantumando la narrazione del racconto che porta in scena, alimentando le suggestioni piuttosto che la logica narrativa e generando quello che Deleuze, nel suo celebre libro "la logica del senso", identificava come uno spazio vuoto tra significante e significato, un gap che forza i limiti tra oggetto e soggetto e invita ogni spettatore a rileggere le parole sentite, i suoni emessi, secondo il proprio personale punto di vista.
Per concludere non si può dire che lo spettacolo di David Moss sia particolarmente originale, ma intrattiene per un’ora il pubblico adulto (e anche i numerosi bambini in sala) con una varietà vocale e un impegno performativo di tutto rispetto.