David Lynch fotografo: il fascino oscuro della rovina
Inquietanti, cupi, sinistri gli scatti di David Lynch, proprio come i suoi film. La sua cifra si distingue in ogni opera, che si tratti di pellicole cinematografiche, fotografie, dipinti, libri, composizioni musicali.
In ogni sua creazione l’atmosfera surreale, onirica e perturbante la fa da padrona; l’inconscio, l’irrazionale, il misterioso emergono prepotenti a insinuare un’inquietudine indecifrabile. Visioni repellenti, di metamorfosi, decomposizioni e deformazioni compaiono spesso nei suoi film e nelle sue opere plastiche, ma nelle fotografie di fabbriche, esposte in questi giorni a Londra, un velo di poesia ‘ripulisce’ le immagini, pur senza attenuare l’effetto di inquietudine che esse provocano. In Inghilterra The Photographers’ Gallery fino al 30 marzo presenta la mostra David Lynch: The Factory Photographs (qui il sito della galleria), con una serie di oltre 80 scatti dedicati alle fabbriche abbandonate, agli edifici industriali dismessi e ai monumenti di archeologia industriale che hanno in sé il fascino della decadenza, della rovina e della morte.
“Sono sempre stato affascinato dalla rovina”, racconta il regista il cui nome per intero è David Keith Lynch. “Le mie iniziali sono DKL, e i miei genitori mi chiamarono ‘DK’ per qualche tempo, fino a quando si resero conto di quello che stavano dicendo”. Il soprannome DK – che si pronuncia come la parola inglese decay, ovvero decadenza, rovina – sembra aver prefigurato la passione di Lynch per la decomposizione e il disfacimento.
Le sue fabbriche sono enormi mostri abbandonati, architetture industriali dismesse o distrutte, immortalate rigorosamente in bianco e nero e d’inverno, con tagli particolari e ombre profonde. Nessun essere umano abita queste vedute, che perciò sono più che mai silenziose e malinconiche. Nelle riprese esterne alberi spogli, cavi, ciminiere, fumo; negli interni finestre dai vetri infranti, pareti crepate e vecchi macchinari: il senso di desolazione è estremo, ma è associato ad un’estetica di grande fascino, frutto di una trasfigurazione di cui Lynch è maestro, capace di capovolgere e proporre un sistema di valori estetici sorprendentemente alterato: “Amo l’industria, i tubi, i fluidi e il fumo. Amo le cose fatte dall’uomo, così come amo la melma e lo spreco che l’uomo produce”.
L’interesse del regista americano per il tema dell’industrializzazione è evidente in pellicole come Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980), dove rumori di fabbriche o macchinari di vario genere animano spesso le scene. In effetti le foto in mostra a Londra sono legate all'ambito cinematografico, in quanto frutto di un lavoro di ricerca di locations per film. Nessuna delle ambientazioni fotografate è divenuta un set, ma in ogni caso tutte le foto di fabbriche posseggono un potenziale narrativo tanto alto quanto complesso: è difficile dire se qualcosa in quegli ambienti è accaduto o sta per accadere, ma il presentimento di un avvenimento pericoloso è forte.
Gli scatti risalgono al ventennio tra il 1980 e il 2000 e sono stati realizzati nelle zone periferiche d’America e d’Europa: a New York, in Inghilterra, in Germania, in Polonia. La tecnica di stampa su carta alla gelatina al bromuro d’argento conferisce alla superficie dell’immagine l’impressione di una consistenza fuligginosa, come se vi si fosse posata della cenere ad accentuare l’effetto di fumi, nebbie e vapori interni alla scena.
La fotografia di archeologia industriale ha avuto probabilmente i suoi massimi esponenti nei tedeschi Bernd e Hilla Becher; tuttavia David Lynch non guarda al loro stile sistematico e freddo, piuttosto ripropone negli scatti lo stile e i modi tipici dei propri capolavori cinematografici, conferendo toni surreali e allucinati anche alle opere fotografiche. D’altra parte le fabbriche, per l’artista, non sono semplici costruzioni industriali: “They look like cathedrals to me”, afferma DK. Fabbriche come cattedrali, dunque, come ricordi di un’epoca in decadenza, come rifugi, come luoghi della memoria, del pensiero, della solitudine, della meditazione trascendentale, pratica che l’autore sostiene e svolge quotidianamente da oltre trent’anni.