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David Foster Wallace, a 5 anni dalla morte, è ancora il guru dell’avantpop

Era il 12 settembre del 2008 quando lo scrittore americano David Foster Wallace si impiccò nel patio di casa sua a Claremont, in California. Vi proponiamo l’estratto di un’intervista del 2003 in cui l’autore di “Infinite Jest” parla del rapporto tra letteratura e politica con toni caustici e profetici.
A cura di Andrea Esposito
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Ci sono gli scrittori, i grandi scrittori e poi ci sono i guru. Quelli che, per esempio, passano con disinvoltura dal romanzo, al saggio, al racconto mutando a tal punto la propria cifra stilistica da apparire inafferrabili, sfuggenti. Provate a definirlo, David Foster Wallace e vedrete…

Ad ogni modo, diciamolo pure: "ceci n'est pas une…” commémoration! (questa non è una… commemorazione!) poiché siamo abbastanza certi che l’avrebbe odiata. È piuttosto un occasione – il quinto anniversario del suicidio dello scrittore – per rinfrescare un po’ il verbo “wallaciano” evidenziandone i passaggi autenticamente profetici e in più, per segnalare l’uscita di due libri notevoli: il primo, è una biografia del giornalista americano D.T. Max intitolata “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” per Einaudi; il secondo, è una inedita raccolta di interviste dal titolo “Un antidoto contro la solitudine”, ultimo grande colpo della casa editrice romana Minimum Fax.

Come promesso, dunque, niente sciorinate melense né aneddotica da Wikipedia, viceversa vi proponiamo la prosa crudele e affilata di Foster Wallace, in un estratto ricavato dall’intervista che Dave Eggers gli aveva fatto nel 2003 per la sua rivista “The Believer” pubblicato in Italia da Isbn edizioni (se vi interessa e volete leggerla integralmente è disponibile anche on-line).

Foster Wallace, incalzato dal collega-intervistatore, dice la sua su un tema che ci è sembrato attualissimo e di cui, peraltro, si è discusso all’ultima edizione del Festivaletteratura di Mantova: il ruolo del letterato nel dibattito pubblico, in particolare sui temi legati alla politica. Provate per credere.

«Il dibattito politico ormai è un problema solo formale di predicare per il proprio coro e demonizzare l'opposizione. Tutto viene reso o bianco o nero. Visto che la verità è molto ma molto più grigia e complicata di quanto possa cogliere una sola ideologia, questo atteggiamento è non solo stupido ma perfino stupefacente. Guardare O'Reilly contro Franken (rispettivamente un esponente repubblicano e uno democratico, n.d.r.) è come guardare uno sport violento. Come può tutto ciò essere d'aiuto a me, il cittadino medio, nel decidere a chi affidare il potere di scegliere la politica macroeconomica del mio paese […] o come ridurre al minimo le possibilità che la Corea del Nord sganci bombe atomiche trascinandoci in una guerra straniera pazzesca? Domande del genere sono profondamente complicate, e gran parte di ciò che è complicato non è sexy, e ben oltre il novanta percento dei commenti politici al momento incoraggia l'illusione, arrapante nella sua assenza di complessità, che un lato sia Giusto e Virtuoso e l'altro sia In Torto e Pericoloso. Il che ovviamente è una piacevole illusione, in un certo senso – così come lo è la convinzione che ogni singola persona con cui sei in conflitto sia un cazzone – ma è infantile e totalmente incapace di portarci verso un pensiero complesso, al "do ut des", al compromesso o all'abilità degli adulti a funzionare come comunità.

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La mia convinzione personale, un po' da sognatore, forse, è che visto che chi scrive roba letteraria si suppone abbia un qualche interesse speciale nell'empatia, nel provare a immaginare com'è essere l'altro, gli scrittori potrebbero avere un ruolo utile in un dibattito politico come il nostro, con i problemi che presenta. […] Implicita in questa breve, petulante risposta è l'idea che almeno una parte dello scrivere politico dovrebbe essere platonicamente disinteressata, dovrebbe elevarsi sopra lo scontro, eccetera; nel mio caso attuale ciò è impossibile […] Al momento sono un partigiano. Ancora peggio: sento una tale profonda e viscerale antipatia che non mi sembra di poter pensare parlare o scrivere in nessun modo con giustizia e sfumature a proposito dell'attuale governo. Dal punto di vista della scrittura, penso che questo stato interiore sia dannoso. È quando uno sente molto personalmente qualcosa che è più tentato di alzare la voce ("esternare" è il termine che si usa in questo momento, carico di retorica com'è), ma in quel momento si rivela meno produttivo che mai – è pieno di scrittori e giornalisti che "esternano" e scrivono pezzi sull'oligarchia e il neofascismo e la mendacità e la deprimente vista corta implicita nelle definizioni di "sicurezza nazionale", "interesse nazionale" ecc., e molti pochi di questi scrittori mi sembrano produrre pezzi utili o potenti o veramente persuasivi rispetto a chi non condivide già le opinioni dell'autore.

Il mio piano per i seguenti quattordici mesi è bussare a porte e riempire buste, forse perfino mettermi la giacca, provare ad aggregarmi con altre persone per formare una massa demograficamente significativa per provare veramente a fare esercizio di pazienza, educazione e immaginazione nei confronti di coloro con i quali mi trovo in disaccordo. E anche usare più spesso il filo interdentale».

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