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Daria Bignardi: “Il carcere è sessista e classista, ma soprattutto è inutile”

Daria Bignardi ha parlato a Fanpage del suo ultimo libro, Ogni prigione è un’isola sull’istituzione carcere, la poca conoscenza che la società ne ha e anche la sua inutilità.
A cura di Francesco Raiola
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Daria Bignardi nella redazione di Fanpage
Daria Bignardi nella redazione di Fanpage

Toccare l'argomento "carcere", in Italia, è spesso un tabù. Non lo fa la Politica, perché è un tema troppo scivoloso che porta più rogne che voti, non lo fa l'opinione pubblica che spesso sulle carceri ha un'idea giustizialista data dalla poca conoscenza di certi meccanismi. Nonostante ciò, Daria Bignardi ha voluto dedicare al tema il suo ultimo libro, "Ogni prigione è un'isola" (Mondadori), partendo dalla propria esperienza personale all'interno delle carceri italiane, dando voce a detenuti, ex detenuti, direttori e direttrici di penitenziari – e facendolo passando dall'isola di Linosa -, ma soprattutto portando avanti una riflessione sull'inutilità del sistema carcerario italiano e partendo da una riflessone, ovvero che "il carcere lo odiano tutti. Alcuni amano il carcere degli altri". Ecco l'intervista a Daria Bignardi con cui Fanpage ha parlato del libro, ma anche della sua esperienza televisiva.

Come mai hai deciso che fosse arrivato il momento di scrivere questo libro sulle carceri?

Un po' per caso, come succedono tante cose. Avevo scritto un lungo articolo per Finzioni, perché Jonathan Bazzi, che lo dirigeva quel mese, mi chiese di scrivere una cosa di Milano, così ho pensato: ma io cosa so bene di Milano? Forse una delle cose che conosco meglio è il carcere di San Vittore, posto in cui vado da sempre. Scrivendo questo articolo abbiamo notato che erano rimaste fuori tante cose – Mondadori aveva notato che nei romanzi mettevo spesso il carcere – e mi sono resa conto di avere resistenze, di non volerlo fare e ho capito che probabilmente è perché facendolo ne sei un po' ossessionata, ci stai dentro giorno e notte, non pensi ad altro e io non volevo stare in carcere giorno e notte, perché è un posto in cui si sta male. Anche nel rapporto col carcere sono discontinua, ci sto due anni, poi non ci vado, faccio un altro progetto, etc. Scrivendolo mi sono resa conto che è un rapporto che va avanti da tantissimo tempo, quindi ho messo dentro tutto quello che riguardava questo mondo e che mi riguardava.

A un certo punto leghi il carcere a tua madre…

Il gigante dai cento occhi, che è come il Panopticon, la struttura pensata dal giurista inglese del 700 Jeremy Bentham, pensato con un corpo centrale e dei raggi attorno per cui tutti i detenuti devono sempre avere la sensazione di poter essere visti, anche se non lo sono, ma da questo corpo centrale si sentono sempre osservati, come io mi sentivo da mia madre e tanti si sentono da certe figure genitoriali. Non c'è niente da fare, lei torna sempre, anche se si parla di carcere, non a caso.

Il tuo rapporto con le carceri, invece, come nasce?

L'ho capito scrivendo, forse la primissima cosa è stata scrivermi con un detenuto condannato a morte che mi ha risposto e per un po' c'è stata questa corrispondenza, mi raccontava della sua vita nel braccio della morte finché mi ha detto che sarebbe stata l'ultima lettera perché era arrivato il momento dell'esecuzione. Forse da lì, poco dopo, ho cominciato ad andarci e fare dei lavori, quando facevo Tempi moderni coinvolgevo dei detenuti del carcere di San Vittore, ho diretto un giornale che si chiamava Donna e avevo dato a un gruppo di detenuti una rubrica di televisione, perché è l'unico rapporto che hanno con l'esterno e mi sono resa conto che da lì non ho più smesso.

Prima parlavi di come scrivere sia un'ossessione, quanto ti spaventa, prima di scrivere, questa ossessione?

Te ne accorgi facendolo, io ho cominciato tardi a scrivere romanzi, 15 anni fa, e non sapevo che dimensione fosse dal punto di vista ossessivo: mentre certi lavori giornalistici o da autore tv sono più limitati nel tempo e sono lavori di gruppo, scrivere un libro è un lavoro solitario, molto più intimo, che va più in profondità e in cui lavori il tuo materiale, la scrittura, con più ossessività, ma è anche bello. Una delle cose bellissime dello scrivere è il riscrivere, la possibilità di riscrivere una pagina cinquanta volte, finché non trovi la sua voce, che tu sai qual è, la senti, e lavori finché non trovi il ritmo giusto.

La solitudine di Linosa, dove hai scritto parte del libro, è servita a trovarla questa voce?

Sì, è servita proprio a trovarla questa voce. Il processo di scrittura di questo libro è stato particolarmente rognoso perché il carcere è un tema molto complicato, è quasi utopico parlarne perché i problemi sono enormi, sono sempre gli stessi, anzi sono sempre peggio e lavorandoci da tanti anni sai benissimo che quello che scriverai non piacerà a nessuno: il carcere lo odiano tutti, qualcuno ama il carcere degli altri, però è un tema respingente e io amo essere inclusiva rispetto a chi mi legge. In più volevo portare per mano le persone che non hanno già un certo pensiero sull'argomento, ma che magari hanno una curiosità, volevo portarle con me dentro questo mondo e avevo bisogno di isolarmi. Così ho scelto quest'isola che frequentavo da poco.

Come mai l'hai scelta?

L'ho scelta perché è remota, lontana e piccola. È un'isola particolarmente complicata nell'accesso, perché non ha il porto, quindi se c'è il mare grosso a volte il traghetto non attracca, dipende dalla bravura del comandante, la continuità territoriale non è garantita, è un'isola piena di problemi, ma magnifica e particolarmente solitaria. E quindi ho detto: vado là, così mi concentro, mi isolo e trovo quella condizione mentale, che è quella dell'isolamento che in qualche modo mi tiene anche vicino al tema del carcere e del suo isolamento. Poi continuavano a succedere cose che avevano a che fare col carcere: in biblioteca ho trovato dei documenti inediti di soggiornanti mafiosi che erano stati sull'isola dagli anni '70 in avanti, lettere scritte da loro, lettere della popolazione, mi è capitato di incontrare Leonardo Di Costanzo, il regista di Aria ferma, che è un ottimo film che parla di carcere, insomma continuavano a succedere cose e allora alla fine le ho lasciate entrare dentro.

Tra le varie cose che racconti c'è la riflessione sul carcere come struttura pensata per gli uomini ma in cui ci sono pure le donne. E questo è un grosso problema.

Sì, tra l'altro sono pochissime le donne, solo il 4% della popolazione penitenziaria e sicuramente il carcere non è un posto per loro. Per me non è un posto per nessuno ma in particolare per le donne, che soffrono particolarmente per la lontananza dai figli, soffrono di un isolamento particolare. Sono stata anche nel carcere di Tirana, in Albania, che somiglia un po' al carcere femminile di Pozzuoli, perché ha molti spazi aperti e ha una popolazione anche di polizia penitenziaria molto vicina a quella carceraria e ho chiesto a queste signore che piangevano di raccontarmi le loro storie: "Perché secondo voi – ho chiesto – in tanti anni che vado in carcere non ho mai visto uomo piangere? Perché gli uomini non piangono e le donne sì?". E loro mi hanno detto: intanto perché spesso loro hanno fuori una donna che si occupa di loro, che sia la mamma, la fidanzata, la sorella, un'amica, mentre noi siamo molto più abbandonate e in più noi soffriamo terribilmente per la mancanza dei figli. Poi questo proprio non è un posto per noi, mi ricordo una di loro che disse: "Beh, ma neanche fuori è un posto per noi". La condizione delle donne è particolarmente dolorosa in carcere.

Oltre al genere, un altro problema che fai emergere è quello della classe…

C'è poco da fare, il carcere è un posto classista, nel senso che ci trovi soprattutto persone povere, disgraziate, con pochi strumenti, poco istruite, insomma c'è di tutto ma le persone benestanti e istruite sono una minoranza esigua anche perché sono quelle che riescono a difendersi meglio, riescono a usare le leggi che ci sono, che magari ti permettono l'affidamento o i domiciliari. Le nostre carceri sono piene di persone che probabilmente avrebbero i requisiti per andare ai domiciliari, ma un domicilio non ce l'hanno e non sanno dove andare e in carcere rimangono. Magari non lo sanno neanche che potrebbero uscire, il carcere è pieno di persone malate, che hanno problemi psichiatrici molto gravi, è un posto in cui, visti gli enormi problemi, si cerca con la terapia – gli psicofarmaci soprattutto – di tenere sotto controllo una situazione che è incontrollabile. Lo si vede quando succedono cose come quelle avvenute durante le rivolte di marzo 2020, quando col Covid è esploso il terrore, ci sono stati 13 morti, insomma una strage di persone affidate allo Stato, è stata una grande sconfitta, ma anche un segnale della difficoltà di certe situazioni. Ero con Lucia Castellano, la provveditrice agli istituti penitenziari campani e lei diceva: "È una pentola a pressione di problemi". Problemi di cui sono vittime non solo le persone detenute ma anche le persone che in carcere lavorano, tipo gli agenti di polizia penitenziaria che fanno una vita molto difficile, non soltanto i detenuti, quindi, ma anche gli agenti.

Spiegami meglio…

Ammiro molto chi lavora in carcere perché è veramente un lavoro molto difficile, moltissimi lo fanno con un grande spirito di servizio e tra l'altro non particolarmente sostenuti né dall'opinione pubblica, né dalla politica, se non per motivi elettorali o di sindacato.

Diciamo che quello che racconti delle rivolte, in qualche modo, non aiuta neanche ad avere una visione positiva, perché sono le cose che arrivano anche al grande pubblico.

Io spero di essere riuscita a raccontare anche come io non creda nelle mele marce. Sai, quando succedono quelle cose e ne vediamo i video, i manganelli, le percosse, come successo a Santa Maria Capua Vetere, c'è sempre qualcuno in politica che dice che si tratta di poche mele marce. Non è vero, è il sistema che è guasto, non ci sono le mele marce. Ti dico un'altra cosa, i detenuti difendono moltissimo gli agenti: penso a un istituto come quello di Bollate, in cui si applica quello che sarebbe l'articolo 27 della Costituzione, che parla di non venire mai meno alle regole di umanità, di reinserimento e in cui si cercano di mettere in pratica queste regole – benché sia comunque un carcere brutto e squallido come tutte le carceri; c'è un ex detenuto, nel libro, Pino Cantatore che dice: "Io penso che le stesse persone che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere, se fossero state Bollate non l'avrebbero fatto". Non è un tema di persone, ma di sistema che diventa esplosivo, una pentola a pressione di problemi che esplodono, perché dove c'è violenza c'è violenza per tutti".

Cosa vuol dire che il carcere è inutile?

Che il carcere sia inutile non lo dico e non l'ho pensato io, ma lo dicono quelli che ci lavorano. Lo dice l'ispettore al quale ho dato voce, lo dice Luigi Pagano, direttore quarantennale di carcere, uno forse dei più bravi e dei più importanti che abbiamo mai avuto, lo dice Gherardo Colombo, che sull'inutilità del carcere ci ha scritto un libro. Il carcere, infatti, così com'è non funziona, intanto ci dovrebbe essere meno gente, le nostre carceri sono piene, zeppe – 61 mila persone a fronte di 47 mila posti al massimo – di gente che magari ha piccole pene, un solo anno di detenzione, gente che è inutile che stia in carcere, sta solo veramente a farsi del male, a costituire un costo, una sofferenza per loro e per le loro famiglie. E, tra l'altro, non è che ci guadagnino le vittime dei loro reati per questa detenzione che assomiglia a una vendetta.

E cosa si potrebbe fare?

Intanto ci dovrebbe essere meno gente, ci dovrebbero essere le pene alternative al carcere, si dovrebbe fare di più per creare lavoro: sappiamo che quando c'è una formazione, con un carcere che permette di accedere a un tipo di lavoro un po' qualificato, la recidiva crolla dal 70% al 20%. Ci converrebbe molto, come Stato e come cittadini, se invece che tornare in carcere il 70% ci tornasse solo il 20%. Pagano dice sempre che su 60 mila detenuti che ci sono ce ne dovrebbero stare forse 6 mila: quel migliaio di mafiosi, quei 600 al 41 bis e tutti gli altri sarebbe meglio che facessero altro e questo te lo dicono le persone che ne sanno.

Però non è un tema nel Paese, non lo è mai per la Politica, per esempio.

Ma non lo è perché il carcere non porta voti, non interessa a nessuno, son ben pochi: abbiamo avuto Pannella, ora c'è Manconi che è stato Senatore e si è occupato di carceri, però a chi interessa questo tema? Non è solo questo Governo, che pure sta inasprendo le pene, portando più gente in carcere, ma quello precedente era uguale! È un tema sul quale nessuno si vuole prendere la patata bollente. Tra l'altro è provato che la nostra popolazione penitenziaria è raddoppiata mentre il crimine è molto diminuito: gli omicidi sono molto diminuiti, ma non sappiamo mai e non sentiamo mai questi dati, invece ci sono, sono sotto gli occhi di tutti quindi è comprensibile il tema della sicurezza ma non è il carcere né a fare da deterrente né a creare una popolazione che in carcere  non ci torna. Anzi quello che mi hanno detto tanti detenuti che ho conosciuto e intervistato è che loro in carcere hanno imparato a fare i criminali veri, magari sono entrati per una piccola cosa, un furtarello, una macchina, contrabbando e sono usciti coi contatti giusti per fare proprio i rapinatori: l'università del crimine spesso è il carcere.

Sei stata una delle ultime direttrici della vecchia RAI. Ti sei fatta un'idea di quello che è successo in queste ultime settimane?

Certo che me la sono fatta. È l'idea di un sistema che mostra tutta la sua ipocrisia, che mostra quello che c'è sempre stato, perché da quello che ho capito, anche nella mia esperienza, quando arrivammo in RAI…

Arrivaste chi?

Antonio Campo Dall'Orto che era stato mio direttore a La 7, Ilaria Dallatana che venuta a fare la direttrice Rai2 e io di Rai3. Ci avevano detto che era tutto cambiato, era tutto diverso, la politica non esisteva più, non era vero neanche allora, nel senso che la RAI credo sia sempre stata vissuta come un posto in cui il Governo in carica si è sempre aspettato di avere un occhio di riguardo, la sua rete, e io credo che come abbiamo fatto noi ci siano generazioni e generazioni di persone che ci sono andate a lavorare pensando che non fosse più così.

Ti manca la conduzione televisiva?

No, perché l'ho fatta a lungo, mi sono presa un sacco di soddisfazioni, mi sono divertita col mio gruppo, è molto bello fare l'autore.

Però?

Però intanto non ho mai amato molto la parte dell'apparire, con tutto quello che comporta, che ha qualcosa di malsano, almeno per quanto riguarda me. Mi piace la parte del pensare alle cose che vanno in onda, meno il fatto di essere io a incarnarle, quindi ho sempre fatto molta fatica, mi sono sempre molto stressata. In più da 15 anni, da quando ho pubblicato il primo libro "Non vi lascerò orfani" mi sento talmente più io, mi sento talmente più me stessa che faccio le cose che ho sempre voluto fare; non che quelle di prima non mi piacessero, però erano veramente solo una parte di me, adesso è come se ci fosse tutto. Che poi è sempre un'illusione quella dell'identità. È un grande trasporto quello del desiderare l'autenticità, di essere davvero noi stessi e più si va avanti, credo, più un po' si riesce a tagliare tutte le cose che non ci corrispondono davvero e a cercare di mantenere il nostro nucleo forte, quel daimon per il quale siamo nati. Per questo non mi manca, anche se ci sono cose molto belle nel condurre, delle cose che riesci a portare.

Tante scoperte, tante cose che hai fatto, artisti meno famosi, il rap…

Certo, da Roberto Saviano a Michela Murgia, tanti rapper come Massimo Pericolo o i Club Dogo, Fabri Fibra… sono molto curiosa, mi piace sempre ficcare il naso, cercare di aprire un po' di strade, ma lo si può fare in tanti modi.

E tu lo hai fatto in tanti modi, a partire dall'essere stata la prima conduttrice del Grande Fratello, direttrice di rete, scrittrice, anche se spesso il tuo nome è legato alle interviste…

Certo, le ho fatte per undici anni, alle Invasioni credo di averne fatte più di mille, perché poi erano interviste in diretta, cinque a sera, non so neanche come facevo, francamente, forse per quello ho smesso, non ne potevo più.

Pressioni ce n'erano?

No, devo dire che a La7 era un paradiso, non ho mai avuto mezza pressione, ho sempre fatto tutto quello che volevo, compresi gli errori. Guarda, a un certo punto ho fatto un passaggio sconsiderato a Rai2 da La7, con L'era glaciale e sono tornata subito indietro, perché quello, come dicevamo prima, è un mondo diverso.

Che successe?

Andai a fare L'era glaciale, e feci la famosa intervista a Brunetta, che allora era Ministro dell'economia, e poi un giorno c'era con me Morgan, che ai tempi era resident artist del programma e non mi ricordo cosa disse di Berlusconi e della P2: noi eravamo in differita quell'anno, avevo sempre fatto dirette, però quella volta ero in differita, il che vuol dire che registri e poi va in onda dopo mezzora, tipo. Insomma, finiamo la puntata, andiamo tutti insieme a mangiare una pizza, accendiamo la tv e al posto della programma c'erano i cartoni animati. Ci chiedemmo se non avesse avuto a che fare col fatto che aveva detto Morgan, della P2, di Berlusconi… comunque quello che so è che dopo tre settimane sono tornata a La7.

L'intervista più divertente che ricordi?

Banalmente Checco Zalone e Alessandro Siani, con lui ho riso alle lacrime, con un umorismo cattivo, di pancia, irresistibile. Ma anche con Checco, cioè, tante, tante interviste sono state molto divertenti.

Ma questo non vale il ritorno.

Ma no, vado a vederli a teatro e mi diverto un sacco.

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