Dal mócheno al bagitto: l’origine e la storia dei dialetti più curiosi e meno parlati d’Italia
“Molta parte dell’anima nostra è in dialetto”, scriveva Benedetto Croce quando spiegava la nascita e l’evoluzione della lingua italiana: la grande letteratura e la poesia nazionali devono molto alle lingue regionali, che con la loro estrema vivacità sono penetrate nei modi più inaspettati nel nostro parlare quotidiano. Dialetti come il napoletano o il romano conservano ancora una vivacità unica, ma molti altri, circoscritti a poco più di qualche migliaio di parlanti, rischiano di essere dimenticati: ecco i più curiosi.
Un patrimonio in via d’estinzione
Ad oggi in Italia esistono ancora moltissime lingue che rimangono radicate in piccoli territori e che sono espressione di culture variegate e vivaci che, però, contano meno di mille parlanti: la loro memoria, gradualmente, si esaurirà. Un fenomeno che in gran parte dei casi ha origine dalla disabitudine delle nuove generazioni, soprattutto all’interno delle piccole comunità, al parlare dialetto.
Da un’indagine dell’Alliance for Linguistic Diversity del 2017 è emerso come fra le 7 mila lingue in via d’estinzione in tutto il mondo undici di queste sarebbero le varianti regionali italiane: piemontese, friulano e diversi idiomi sardi contano oggi poco meno di 100 mila parlanti, troppo pochi per sperare che fra 50 anni queste lingue saranno ancora parlate.
Da Nord a Sud, dal tedesco all'albanese
Nonostante l’innegabile rarefazione dei parlanti dialettali in molte zone d’Italia si conservano esempi unici, impenetrabili, di quella varietà linguistica e culturale che ha fatto definire il nostro paese uno dei più “eterogenei” d’Europa. Esiste ad esempio una lingua, racchiusa fra i monti della Valle di Trento, che sopravvive ancora nonostante i 1.661 parlanti: si tratta del mócheno, figlia dell’incontro fra l’alto tedesco del XIII secolo e le lingue allora diffuse nella cresta della penisola.
Lo stesso aggettivo “mócheno” deriva dal verbo tedesco “machen”, che vuol dire fare: espressione di una comunità di lavoratori instancabili, antenati dei coloni teutonici giunti all'alba del Rinascimento nei comuni di Vlarotz, Garait e Palae en Bersntol. La diffusione e la conservazione di questa lingua difficile e più simile al tedesco che all'italiano è stata minacciata pericolosamente durante l’epoca fascista, quando il divieto di parlare “straniero” era tassativo: solo dopo la fine della guerra e con il recupero delle quotidiane e tradizionali attività, il mócheno è ricomparso, miracolosamente, fra gli abitanti del trentino. Moltissimi sono i documenti, in prevalenza di derivazione orale e religiosa, che danno un’idea di come doveva suonare questa lingua non tantissimi anni fa:
Vatar ingar
en himbl
gahailegt kimmp der dai Num
der dai raich schellt kemmen.
Una solida tradizione letteraria contraddistingue invece l’arbëreshë, il dialetto italo-albanese parlato oggi da poco meno di 100 mila persone fra l’Abruzzo e la Sicilia. Pur condividendo lo stesso alfabeto e la stessa tradizione culturale della lingua nazionale di provenienza, l’arbëreshë ha conquistato un’autonomia e una dignità linguistica solida e duratura fra i parlanti, tanto da divenire oggetto di studio in gran parte delle università del centro e sud Italia.
Il mistero linguistico del bagitto
Altro esempio curioso è quello del bagitto, il dialetto giudaico-italiano utilizzato dagli ebrei della comunità di Livorno. Un linguaggio assai prossimo all’italiano ma contaminato dal toscano, dallo spagnolo, dal portoghese, dal greco, dal turco e dall’yiddish: contaminazione dovuta soprattutto al plurilinguismo degli ebrei livornesi, che utilizzavano il catalano come lingua letteraria, il greco come lingua sacra e l’italiano come mezzo di comunicazione con gli italiani.
Pel cioe aggradite la osa com’ene, e tel-mino con uno stolnello, che mi pare d’avè letto nel canto di Rolinda in der Tasso: se vi ontento picchiate le mani, e se non piace, siete anco padloni, di vogammi er saluto der Baltiani.
Questa lingua, ricchissima anche dal punto di vista letterario fino agli anni Cinquanta, porta con sé un mistero legato alla sua origine: anche se gran parte degli studiosi fa risalire la sua origine dal “bajito”, ovvero dal basso, altri sono convinti che il suo uso sia collegato all’“hablar bajito”, ovvero al parlar sottovoce in caso di pericolo o necessità di segretezza. Moltissime espressioni di questo genere si sono conservate anche all’indomani del fascismo, come l’allerta per il nemico incombente che si traduce con “Arriva tarzanì”. Altre parole oggi rimaste nel dialetto locale sono “chetilà”, ovvero angoscia, “nganaveà” che vuol dire rubare e “bobo”, sciocco.