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Da Manopello a Marcinelle senza ritorno, 60 anni fa la strage dei minatori

Da Manopello partirono 23 dei 136 minatori italiani (su 262 totali) morti nell’inferno di Marcinelle. Partirono con la sensazione di aver conquistato finalmente la libertà, dopo secoli di soggezione al latifondista, e si ritrovarono catapultati in un “bubello oscuro” a spicconare pietre e inghiottire polvere velenosa, ancora una volta al comando di un padrone e lontani da casa.
A cura di Marcello Ravveduto
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La basilica del Volto Santo a Manoppello, nel cuore del Parco nazionale della Maiella, è uno di quei luoghi fermi nel tempo dove mitologia e religione si confondono in una ritualità popolare genuina. Sin dal XVI secolo i pellegrini si mettevano in cammino da Roma per arrivare al santuario dove è custodita una reliquia speciale: un velo su cui è impressa l’immagine di Cristo.

Qui i paesani venivano e vengono a sposarsi sotto lo sguardo benigno del Volto Santo. Un tempo i cortei nunziali arrivavano esclusivamente a piedi o a dorso di un asino. Poi con il passare del tempo l’ascesa è diventata più lieve grazie alla diffusione dell’auto. In un filmino del 1963, che ho pescato su Youtube, si vedono Ettore e Teresa davanti alla basilica. La giornata è piovosa. L’operatore compie una panoramica sugli invitati: gli anziani hanno tutti il cappello e vestono con camicia, panciotto e giacca senza cravatta. La camicia è abbottonata fino al colletto. Gli adulti indossano abiti scuri con cravatte strette e molti giovani sono in maniche di camicia. All’uscita volano riso e confetti. Gli uomini corrono verso le vetture per disporsi in corteo dietro l’auto degli sposi. Si forma una lunga fila in cui appaiono una Topolino, una Bianchina, alcune 500 e 600, una 1100, un’Appia e qualche Giardinetta. Le auto sfilano davanti all’obiettivo mentre si allontanano. Sembra la partenza di una gara automobilistica. Una dietro l’altra percorrono i tornanti della collina scendendo verso la valle.

La modernità è arrivata anche tra le montagne dell’Abruzzo; una modernità mitigata dalla parsimonia della vita contadina e pastorale. Ma da dove arriva l’insperato benessere? Manoppello è un posto dimenticato da Dio, un luogo da cui si fugge per sottrarsi alla fatica e alla povertà. Un destino comune a tanti meridionali che nel secondo dopoguerra emigrano verso il nord Europa in cerca di fortuna. Non è un emigrazione forzata ma la nascente Repubblica l’agevola vendendo forza lavoro in cambio di materie prime. Questo è il primo vero passo verso la libera circolazione di uomini e merci della futura Unione Europea.

Tanti giovani, dopo essersi sposati nella basilica del Volto Santo, così come fecero i loro padri e i loro nonni, chiudono indumenti e speranza in una valigia di cartone e partono. La meta più ambita a Manopello è la Vallonia, un regione del Belgio, ricca di giacimenti petroliferi, dove li hanno preceduti amici e parenti. Questi montanari abituati alle rigide temperature invernali e a spostarsi in condizioni di primitivo disagio sono le braccia su cui si regge l’accordo siglato tra Roma e Bruxelles nel 1948: duemila nuovi minatori italiani a settimana in cambio di carbone (duecento chili per ogni nostro lavoratore).

Esultano, pronti a farsi valere, quando leggono, o qualcuno per loro, i seducenti manifesti rosa che tappezzano le città della nascente Repubblica: “Operai italiani! Condizioni particolarmente vantaggiose per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe”. Partono, giovani dalla fasce asciutte, per arrivare in un paese ostile che li teme, come noi oggi temiamo i migranti, nonostante estraessero dalla viscere della terra la ricchezza nazionale. Sono stipati in villaggi di baracche in cui si gela d’inverno e si arrostisce d’estate, esattamente come mostra Stijn Coninx, il regista del film “Marina”, dedicato alla vicenda biografica di Rocco Granata. Il giovane calabrese cresce in una società che pratica di fatto l’apartheid verso un gruppo etnico ritenuto inferiore e selvaggio. Basta ricordare l’episodio in cui Rocco è ingiustamente accusato di stupro dalla polizia solo perché è un diverso che ha osato sfidare una regola convenzionale di separazione: gli italiani da una parte, brutti sporchi e cattivi, i belgi dall’altra, bianchi, puliti ed egoisti.

Partono con la sensazione di aver conquistato finalmente la libertà, dopo secoli di soggezione al latifondista, e si ritrovavano catapultati in un “bubello oscuro” a spicconare pietre e inghiottire polvere velenosa, ancora una volta al comando di un padrone e lontani da casa. Certo qualcuno dei loro figli s’integra e ha successo come Rocco Granata e Salvatore Adamo; qualcun altro studia e riscatta l’onore familiare entrando a far parte della classe dirigente nazionale (l'ex premier Elio Di Rupo, per esempio), ma gli altri, tutti gli altri, seguono i padri nelle gallerie buie e pericolose delle miniere.

A frotte giungono nel distretto di Charleroi, e non certo con un volo low cost, tengono tra le mani il libretto propagandistico della società mineraria in c’è scritto: «ottimi salari giornalieri, premi temporanei, assegni familiari, scorte di carbone gratuito, biglietti ferroviari gratis, premi di natalità, ferie, possibilità di rimesse per l’Italia, facilità di alloggio». Ed è proprio così: è facile trovare alloggio negli accampamenti che un tempo hanno ospitato prigionieri russi e tedeschi.

I macaronì, come vengono chiamati con disprezzo, sono destinati in gran parte alla miniera di carbone di Bois du Cazier, a ridosso di Marcinelle. Lavorano a ritmi serrati con turni massacranti e dopo pochi anni sono tutti affetti da silicosi. Giovani partiti con il sole in faccia si trovano all’improvviso soli, delusi e prigionieri, appiattiti contro la parete di una galleria sotterranea. Molti, a volte metà del contingente arrivato, si ribellano stracciando il contratto nella illusoria speranza di essere destinati ad altra occupazione, o quantomeno rimpatriati. Ma le autorità belghe reagiscono furiosamente carcerando chiunque si rifiuti di scendere in miniera.

La mattina dell’8 agosto 1956, alle otto e dieci del mattino, un addetto ai carrelli sbaglia la manovra del montacarichi. L’attrezzo sbatte contro una trave metallica che squarcia un cavo dell’alta tensione, rompe una conduttura dell’olio e spacca un tubo dell’aria compressa. L’incendio divampa in pochi secondi: le strutture portanti del complesso (il cui smantellamento è stato più volte annunciato e rinviato) sono ancora in legno. Laggiù, nel fondo della miniera, si ode il boato che preannuncia la fine: il monossido di carbonio si espande avvolgendo i minatori che, senza maschere d’ossigeno, moriranno soffocati o arsi vivi dalle fiamme propagatesi nei cunicoli. Solo dodici sopravvivranno.

Per due settimane si opera nel tentativo di salvare i sepolti vivi. Davanti ai cancelli della miniera si raccolgono i familiari dei lavoratori intrappolati. Pregano, invocano Santa Barbara e bestemmiano in dialetto cercando di darsi coraggio. Il 23 agosto le autorità annunciano: “Sono tutti morti”. Gli ultimi corpi privi di vita giacciono a 1.035 metri di profondità, stretti in un abbraccio di mortale consolazione. Alla fine le vittime saranno 262, 136 gli italiani. Quasi la metà (60) è abruzzese, ben 23 di Manoppello. Dopo la tragedia la stampa nazionale giunge nel paese scoprendo uno dei tanti volti dell’Italia preindustriale dove ancora si vende tutto a credito con la “libretta”, si cammina a dorso di muli e si condivide la miseria.

Nel 2001, una legge dello Stato ha indicato l’8 agosto come “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”, una delle tante ricorrenze del nostro calendario civile trasformato oramai in una cronologia vittimaria: la Repubblica prova a mondare il senso di colpa collettivo per alleviare il dolore dei morti accumulati nel corso della storia. Si commemora, si celebra, si santifica non per ricordare ma per dimenticare di non aver rispettato il dettato della costituzione: «E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Di fronte al disagio del lutto si ripropongono le vecchie pratiche commemorative del nazionalismo ottocentesco, a partire dalla consacrazione del lungo elenco di vittime di cui è tramandato il dato identitario più importante: il nome. La memoria della tragedia, attraverso il ricordo dei nomi, è un esercizio retorico di incorporazione dei defunti nella comunità dei viventi. Una strategia istituzionale volta a riconquistare consenso e appartenenza identitaria. Tutte le vittime, di ogni risma, sono proclamate eroi, loro malgrado, per giustificare la rappresentazione posticipata della pietà pubblica, come atto cosciente di ammonimento per il futuro.

La principessa Astrid, sorella del re del Belgio, qualche giorno fa, in occasione delle celebrazione per il sessantesimo anniversario, si è recata a Manoppello ad omaggiare le vittime di Marcinelle. I giornali riportano che si è commossa quando ha incrociato lo sguardo dei parenti delle vittime, raccogliendo i ringraziamenti delle vedove di due minatori.

Per quanto mi riguarda, tornando al filmino di Ettore e Teresa, mi domando quanti di quei giovani partiti si sono sposati in quello stesso luogo, quanti degli invitati avevano subito compostamente il lutto della tragedia e soprattutto quanto quel benessere, fatto di auto, abiti confezionati e cineprese superotto, sia stato frutto dei loro sacrifici. Nel 1963 l’Italia non è più quella del 1956, niente più muli e “libretta” ma solo tanta voglia di recuperare il tempo perduto, anche grazie ai denari arrivati dal Belgio.

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