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Da Dario Fo a Paolo Poli: i grandi della cultura scomparsi nel 2016

Il 2016 è stato un anno intenso, pieno di avvenimenti. Ma è stato anche l’anno che ha salutato per sempre alcuni fra gli scrittori, musicisti ed artisti che più di altri hanno influenzato la nostra cultura.
A cura di Federica D'Alfonso
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Dario Fo
Dario Fo

Un 2016 da dimenticare. O da ricordare per sempre. David Bowie, Leonard Cohen, George Michael per la musica. Fidel Castro, per la politica. E ancora Dario Fo, Ermanno Rea e Harper Lee per la grande, grandissima letteratura: l'anno che sta per finire ha portato via con sé alcuni dei nomi più importanti della cultura mondiale, molti dei quali, italiani. Ricordarli, è doveroso: e quale miglior modo se non attraverso le loro stesse parole.

Umberto Eco e l'intelligenza nelle parole

Umberto Eco
Umberto Eco

Il 20 febbraio muore Umberto Eco. E con lui, uno degli ultimi custodi della cultura italiana, quella seria, impegnata, curiosamente vivace e brillante. Racchiudere in un’unica frase ciò che Umberto Eco è stato, è impresa impossibile: un sapere enciclopedico, una cultura sterminata e, nel ricordo di chi lo aveva conosciuto, un’umanità infinita. Social network, terrorismo, Chiesa, scienza, politica e università: Umberto Eco ha parlato di tutto. Ha trovato linguaggi sempre nuovi per raccontare la sua particolare visione delle cose: lui, che il linguaggio lo aveva studiato proprio per bene. Un intellettuale che con infinita ironia ammetteva di “poter leggere Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarsi”, e che sempre con la stessa ironia terribilmente seria, ha combattuto la sua personalissima battaglia intellettuale contro innumerevoli “legioni di imbecilli”.

Ma poi mi rendo conto che il problema della Stupidità ha la stessa valenza metafisica del problema del Male, anzi di più: perché si può persino pensare che il male si annidi come possibilità rimossa del seno stesso della Divinità; ma la Divinità non può ospitare e concepire la Stupidità, e pertanto la sola presenza degli stupidi nel Cosmo potrebbe testimoniare della Morte di Dio.

Poli e Albertazzi: i grandi del teatro, nelle parole degli altri

Paolo Poli
Paolo Poli

25 marzo e 28 maggio: due giorni da dimenticare, per il Teatro italiano. Il 2016 ha infatti salutato per sempre due grandi, grandissimi protagonisti del palcoscenico: personalità diverse fra di loro, decisamente opposte per certi versi, ma accomunate da una vita spesa per la parola “teatro”.

Lui è comico restando sé stesso, conservando i suoi tratti lindi e gentili. Non c'è tuttavia nulla di lezioso o vezzoso nella sua grazia: non c'è in lui nessuna civetteria, e nessuna timidezza, nei confronti della realtà. La sua grazia sembra rispondere a un'armonia intima, sembra sprigionarsi da un'intima e lucidissima intelligenza. Fra i suoi molteplici volti nascosti, c'è essenzialmente quello d'un soave, ben educato e diabolico genio del male: è un lupo in pelli di agnello, e nelle sue farse sono parodiati insieme gli agnelli e i lupi, la crudeltà efferata e la casta e savia innocenza.

Lo aveva descritto così Natalia Ginzburg: Paolo Poli, un lupo vestito da agnello. Un uomo di teatro d’altri tempi, vestito di mille maschere geniali che durante la sua carriera lo hanno reso celebre. L’irriverenza era sempre stata la sua qualità più apprezzata ma anche la più contestata: come tutti i grandi, Paolo Poli portava in scena la sua personalissima visione delle cose e del teatro, soprattutto. Uno dei suoi meriti più grandi senza dubbio quello di aver portato sul palco autori “inusuali” per il teatro come Marinetti, Queneau, Diderot e Apuleio.

Come per tutta la vita lui, Giorgio Albertazzi, si era definito “attore”, anche se per tutti è sempre stato molto di più.

Potreste dire che l'acqua fa parte del mare? Certamente no: l'acqua È il mare. E così non si potrebbe dire che Albertazzi faceva parte del teatro. Lui era il teatro, in ogni forma, in ogni accezione e significato. Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo recitare si è accorto che i versi più oscuri di Dante o i concetti più velati di Shakespeare divenivano comprensibili senza che dovesse spiegarli, gli bastava enunciarli. Gli attori immensi lasciano eredità immense, e non esiste un grazie adeguatamente immenso da dire loro.

Sermonti e Rea: letterature, storie e cronache d’Italia

Vittorio Sermonti
Vittorio Sermonti

“Cari amici, mi prendo qualche giorno di riposo. I vostri commenti mi faranno compagnia”, scriveva il 21 novembre su Twitter. Invece, due giorni dopo, Vittorio Sermonti se ne va per sempre, ad 87 anni. Indimenticabile il suo “Giorni travestiti da giorni”, o l’ultimo romanzo dato alle stampe, “Se avessero”, per il quale era stato candidato al Premio Strega 2016, ma anche la sua attività di lucido e innovativo conoscitore di Dante: non solo, Sermonti ha avuto il merito di essere stato forse il primo, ancor prima di Benigni, a portare La Divina Commedia al grande pubblico, con le sue letture nella basilica di San Francesco a Ravenna o al Pantheon.

Il 2016 ha salutato anche Ermanno Rea, scrittore napoletano fra i più energici cronisti delle malattie della sua città. Era solito dire che “il dettaglio appartiene alla cronaca, l’evento alla storia”. Storia e cronaca: entrambe protagoniste indiscusse della sua attività di giornalista e scrittore, caratterizzata anche da importanti premi, fra cui il Viareggio e il Campiello.

Harper Lee: l’addio alla grande narrativa americana

Harper Lee
Harper Lee

Volevo che tu imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere, in questi casi, ma qualche volta succede.

Il 2016 è stato anche l’anno in cui un nome che da molto tempo sembrava dimenticato, è tornato a far parlare di sé. Non solo per l’uscita di un nuovo ed inaspettato romanzo: ma anche e soprattutto per le vicende editoriali che hanno accompagnato il suo ritorno in libreria. Si tratta di Harper Lee, autrice del famosissimo “Il buio oltre la siepe”, romanzo divenuto centrale nel panorama internazionale per la lucida e forse a tratti ingenua narrazione della segregazione razziale negli Stati Uniti. Un successo che, dopo cinquant’anni, è tornato a far parlare di sé grazie ad un sequel che nessuno si aspettava: “Va’, metti una sentinella”, in cui la storia di Scout e Jem Finch prosegue, non senza colpi di scena.

Dario Fo e la vita: una allegra libertà

Dario Fo
Dario Fo

Ne “Il mondo secondo Fo”, il Maestro parlava della vita come di una “meravigliosa occasione fugace da acciuffare al volo tuffandosi dentro in allegra libertà”. Allegria, libertà, spensieratezza, ma anche seria consapevolezza del valore delle parole, anche di quelle più “buffe”: questo è stato il suo teatro, e così sarà probabilmente ricordata per sempre la sua arte.

Il 2016 resterà nella memoria di tutti come l’anno in cui moriva Dario Fo: il 13 ottobre il Giullare se n'è andato. Ma dietro di sé ha lasciato il teatro, l’amore infinito per Franca Rame e per la vita stessa: anche sulla soglia dei suoi magnifici novant'anni, Fo non aveva avuto paura di dire la sua. Il grande Maestro, che ha portato in scena capolavori assoluti come “Mistero Buffo” e ha regalato alla letteratura libri come “Razza di zingaro” e “Dario e Dio”, solo per citare gli ultimi romanzi pubblicati quest’anno prima della sua scomparsa, diceva di non aver paura della morte. Non credeva nel paradiso, o in una vita oltre la vita: era ateo rigoroso, ma un ateo che amava la vita. “Non ho paura di morire, ma mi dispiace lasciare tutto quello che mi esalta nella vita, tutto quello che mi fa dire vai avanti, fai ridere!”.

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