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Da Colombo a Montanelli, da Saddam a Lenin: perché abbattere una statua è sempre un errore

Complessità, ragionevolezza e conoscenza: queste le parole che dovrebbero guidarci nella questione delle statue e dei simboli razzisti e imperiali abbattuti dai movimenti di protesta sviluppatisi dopo l’assassinio di George Floyd. Perché anche la statua del più feroce dittatore è una cicatrice della Storia che può insegnarci molte cose.
A cura di Redazione Cultura
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Una statua è sempre il simbolo di un potere, nel bene e nel male. Sia quando la statua viene issata al centro di uno spazio urbano per essere ammirata, sia quando l'effigiato finisce in disgrazia e viene tirato giù, decapitato, imbrattato, annegato, come nel caso di Cristoforo Colombo in Virginia. Perché in genere quello è il momento in cui a un potere se ne avvicenda un altro. Ci riesce fisicamente, politicamente e socialmente. Così, se il dittatore venerato e subito dal popolo fino al giorno prima finisce per trasformarsi il giorno dopo nell'oppressore di cui liberarsi, ecco che bisogna liberarsi anche dei suoi simboli. È successo migliaia di volte nella storia umana. Si comprende che sia così, soprattutto nel caso di dittature sanguinose giunte al loro epilogo.

Non a caso nei decenni e negli anni scorsi a far impressione furono gli abbattimenti delle statue in Iraq di Saddam Hussein, come quelle di Karl Marx negli ex paesi dell'Unione Sovietica, per non parlare di quella, in tempi più recenti (era il 2014), di Lenin nell'Ucraina della lotta tra filorussi e ribelli. Quello è stato un caso molto interessante, perché non si trattava del solito scontro rispetto a due simbologie avverse da un punto di vista valoriale tipicamente novecentesco (comunisti contro anticomunisti) ma di un simbolo, il capo della rivoluzione russa del 1917, considerato filorusso dai non filorussi. Un simbolo dell'impero, non il papà del comunismo realizzato in terra.

"Goodbye, Lenin" sembra dire l'operaio mongolo ad Ulan Bator nel 2012
"Goodbye, Lenin" sembra dire l'operaio mongolo ad Ulan Bator nel 2012

Tuttavia la questione degli abbattimenti delle statue negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Australia, fino ad arrivare in Europa, relativa a personaggi ritenuti scomodi, perché razzisti o espressione di un immaginario coloniale rischia, in complessità, di superare anche la questione "Lenin in Ucraina". Sembra davvero difficile scegliere da che parte stare in questo dibattito, ancora una volta, radicalizzato su posizioni estreme e tifo da stadio. Siamo a favore dei diritti e dell'uguaglianza del Black Lives Matter, ma non siamo convinti che abbattere le statue degli schiavisti del XVII secolo sia così giusto. Oppure no e invece siamo d'accordo?

Complessità, dicevamo, parola sul cui stato di salute nella nostra epoca non c'è da essere ottimisti. Ma che tuttavia dovrebbe essere il faro guida di questa querelle. Accanto alla ragionevolezza. Perché se è vero che la statua di un vecchio e dimenticato generale schiavista è un conto, un altro è parlare di edifici dell'architettura fascista, per esempio. Se un conto è occuparsi di mappare una grande megalopoli del nostro tempo relativamente ai suoi simboli imperiali, come si propone di fare il sindaco di Londra, altro è imbrattare la statua di Indro Montanelli a Milano. Per non parlare della distinzione tra i valori dell'effigiato e il valore dell'opera.

La statua "decapitata" di Cristoforo Colombo a Boston
La statua "decapitata" di Cristoforo Colombo a Boston

E soprattutto senza mai dimenticare quel che diceva ieri in un'intervista concessa a Fanpage.it lo storico dell'arte e accademico Vincenzo Trione, parlando delle statue, anche quelle dei più feroci dittatori, come dei memento, delle cicatrici che sigillano il nostro passato e che oggi dovrebbero avere un valore testimoniale su cui nessuno dovrebbe discutere. L'arte, anche quella che non ci piace e che non ci rappresenta, va conosciuta e a suo modo "sfidata". Complessità, ragionevolezza e conoscenza: tutto quel che ci servirebbe e che invece preferiamo tenere lontano da noi.

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