Cos’è la parlesia, la lingua segreta dei musicisti napoletani: “Un codice da recuperare e conservare”
"Stu bacone nun se ne fotte ‘e niente, ccà ascimmo pazzi si prejammo sempe, che bellu jammone e comme ‘o ssape fà" cantava Pino Daniele in Tarumbò, canzone contenuta nell'album Bella Mbriana. Versi che contengono parole che a chi non conosce la lingua potrebbe sembrare napoletano, ma appartengono, invece, a un codice diverso, alla parlesia. Se si parla con qualche musicista napoletano oltre i 50 anni, non è difficile imbattersi in parole come bagaria, jammone e jammona, bagone, bane, ovvero parole che appartengono a un gergo che veniva usato dai musicisti per non farsi capire al di fuori di una certa cerchia. serviva per difendersi da jammone d'e bbane, ovvero da colui che pagava, dove per "jammone" si intende un uomo che ha il potere e i bane sono i soldi. A raccontare in che modo nasce e si evolve ci ha pensato la scrittrice e giornalista Valeria Saggese nel libro "Parlesia. La lingua segreta della musica napoletana" (minimumfax), che racconta, anche grazie a un corpo enorme di interviste, in che modo questa lingua si è evoluta, come si è arricchita e in che condizioni versa in questi anni. Conoscere cos'è la parlesia, perdersi nelle sue parole, nelle sfumature di significato, significa addentrarsi in un mondo affascinante che, spiega Saggese a Fanpage, ha bisogno di essere recuperato e conservato.
Cos’è la parlesia?
La parlesia è un gergo, il linguaggio in codice dei musicisti napoletani. Nasce come gergo di piazza e poi diventa un gergo di mestiere, incomprensibile ai non addetti ai lavori. I musicisti erranti, i cosiddetti “posteggiatori” la usavano tra di loro. Chi era fuori dalla loro ‘comunità carbonara’ non riusciva a capire cosa dicessero. Questo gergo viene sdoganato, o meglio “legittimato” dai musicisti che dagli anni ‘70 in poi hanno inserito nelle canzoni alcune parole più comuni. Diventa lo slang di chi non faceva musica accademica, anche se in una seconda fase, la parlesia viene portata anche nei conservatori dagli studenti che fuori entravano in contatto con essa.
Come mai hai deciso di scrivere un libro sulla parlesia?
Conosco la parlesia da 20 anni. L’ho appresa dagli orchestrali quando lavoravo sulle navi e non l’ho più abbandonata. Gravitando nel mondo della musica, l’ho sempre sentita e quindi parlata anche io. Una sera a cena con alcuni amici vennero fuori alcune parole e un po’ di aneddoti. Il giornalista Gino Castaldo che era presente mi ha letteralmente spinta a scrivere questo libro. Mi disse: "È un libro che manca. A ognuno tocca un compito nella vita, a te tocca questo". Devo dire ha dovuto insistere per un paio di mesi prima di convincermi, oggi gli sono grata.
Quanto è rimasto, oggi, di questo linguaggio segreto?
Oggi è cambiata la sua funzione e non sono utilizzate molte parole, se non le più comuni. Tra i musicisti napoletani over 50 e gli addetti ai lavori qualche parola esce in automatico, la si può usare anche per giocare, solo più raramente per non farsi capire. Diciamo che quando la usano tra di loro è un modo per riconoscersi e sentirsi parte di un vissuto, di un mondo storico e musicale irripetibile.
Il tuo libro è anche un libro sui gerghi, in generale, e soprattutto su come cambia e può rinnovarsi il linguaggio, no?
Ogni lingua è in movimento e così anche i linguaggi, i gerghi ecc. Non avrebbe avuto senso scrivere un libro di aneddoti senza la ricerca linguistica e filologica. Ogni modo di parlare rappresenta un modo di pensare, di vivere e nel caso specifico anche di suonare. La visione del mondo cambia, le esperienze cambiano, il mondo stesso si trasforma. Ho cercato, in equilibrio con la linea editoriale, di rendere il saggio un racconto divulgativo, fruibile per tutti.
Una cosa che ho notato è il fastidio dei musicisti quando capirono che stava quasi diventando una moda. Che esperienza hai avuto?
Sì, alcuni si sono sentiti "derubati", come mi ha detto letteralmente Tony Esposito, ad esempio, eppure la prima volta che la parlesia è entrata in un disco era proprio il suo, "Rosso napoletano". All’inizio mi è sembrato un controsenso, poi ho compreso il suo sentire. La voglia di far conoscere e di raccontare il tratto identitario di quella cultura era così forte al punto da imprimerlo istintivamente anche su un disco. Questo vale anche per altri. Enzo Gragnaniello, così come Peppe Barra, invece, mi hanno raccontato che dal momento in cui la parlesia è diventata modaiola hanno smesso di usarla.
Oltre Tony esposito c'era anche uno come Pino Daniele che usava la parlesia nelle canzoni…
Pino Daniele è stato uno di quei musicisti che l’ha usata di più nelle sue canzoni. Aveva fondato anche un’etichetta discografica insieme a Willy David chiamata “bagaria” (parola tipica della parlesia). Nel 1999 quando uscì il brano "I buoni e i cattivi" con molte parole in gergo molti storsero il naso, e da alcuni fu definito “sdoganatore”. Oggi, possiamo serenamente dire che lui, con tutto il movimento che faceva capo a Franco Del Prete e James Senese, legittimando la parlesia ha contribuito a salvare un pezzo importante della nostra cultura che sarebbe andato perso.
Che atteggiamento hai avuto dai musicisti che hai intervistato rispetto alla possibilità di svelare ancora di più questo linguaggio segreto?
Prima di iniziare il lavoro ho telefonato ad alcuni di loro per sapere cosa ne pensassero. Mi è sembrato doveroso. I primi che ho chiamato sono stati il chitarrista Mauro Di Domenico che è uno dei maggiori conoscitori della parlesia e poi il musicologo Pasquale Scialò, Rosario Jermano, Enzo Gragnaniello, Ernesto Vitolo, Tony Cercola e Fausta Vetere della NCCP. Non è stata la giornalista a chiamarli, ma l’amica… successivamente ho chiamato gli altri. Devo dire che la proposta è stata colta con entusiasmo perché hanno subito compreso il senso del libro. D’altronde alcuni glossari della parlesia erano già presenti su internet da diversi anni. Il libro Parlesia non è un’operazione di svelamento, bensì di recupero e conservazione: il racconto di quello che successo a Napoli da un altro punto di vista.
Oltre a musicisti storici della Neapolitan wave hai intervistato anche Clementino e Gnut. Posso chiederti come mai non sei arrivata anche ai giovani rapper? Hai idea di cosa pensino, se pensano qualcosa della parlesia?
In realtà ho ascoltato anche dei giovani rapper, ma non li ho inseriti nel libro, ma saranno in un altro progetto in corso. I rapper, comunque, hanno il loro slang, la maggior parte di chi fa rap e trap non conosce la parlesia, spesso non sa neppure cosa sia.
Qual è il futuro della parlesia, per citare l’ultimo capitolo del libro?
Quello che succederà esattamente non te lo so dire perché non ho la sfera di cristallo, però posso risponderti cosa mi piacerebbe e cosa intuisco dopo tutte le indagini e le testimonianze raccolte. Come è successo per molti gerghi, alcune parole potrebbero essere utilizzate in letteratura e nel teatro come arricchimento linguistico, oltre che nel cinema (come è avvenuto già nel film di Vincenzo Salemme "Amore a prima vista" ad esempio) e perché no, anche nella poesia. Sto già notando che alcune nuove band utilizzano il loro nome o producono dischi ispirandosi alla parlesia. Considerando che ha perso già da tempo la sua esclusiva funzione carbonara è interessante il suo utilizzo come arricchimento del linguaggio musicale perché si attuerebbe al contempo un ulteriore recupero della tradizione.
Alla fine del libro c’è una raccolta dei termini: quali sono le parole che ami/usi di più?
Sicuramente bacone, bagaria e addovà sono termini che uso in maniera fissa da quando navigavo. Anche le mie amiche mi capiscono. Poi, quando sto con chi è dell’ambiente, per esempio con il mio amico Mauro di Domenico uso parole meno note che non posso dirti altrimenti poi non posso più usarle per non farmi capire… ti pare?