Le immagini di Mussolini mentre trebbia il grano, ampiamente familiari a noi italiani, richiamano immediatamente il binomio fascismo-cibo. Il regime fascista dispiegò mirate politiche tese a controllare la produzione, la distribuzione e il consumo di cibo. Già prima della presa di Roma, squadre fasciste organizzarono dimostrazioni in via Condotti al fine di garantire il controllo dei prezzi – che l’inflazione del dopoguerra aveva fatto salire vertiginosamente – e di assicurare la provenienza italiana dei prodotti venduti.
La parola d’ordine per le politiche sul cibo con cui il regime tentò di dare una risposta alla situazione di crisi economica ereditata dalla Grande Guerra fu infatti “autarchia”: l’Italia avrebbe dovuto ridurre al minimo le importazioni dall’estero e contare sui prodotti nazionali, puntando a conseguire quella che Carol Helstosky ha definito “sovranità alimentare”.
Ma cosa avrebbero dovuto mangiare gli italiani? La dieta ideale prevedeva la presenza di carboidrati, legumi, olio e vino, mentre riduceva drasticamente il consumo di carne. La “Battaglia del grano”, lanciata nel giugno 1925, rivendicava l’autosufficienza italiana per la produzione di frumento. Quest’ultimo fu al centro di diverse e cicliche campagne propagandistiche, come ad esempio la “Festa del pane”. Pane che però doveva essere preferibilmente integrale, in quanto richiedeva l’utilizzo di meno frumento rispetto a quello bianco, definito “pane di lusso”.
Lo stesso Mussolini mangiava pane integrale. Per lo stesso motivo, alla pasta andava sostituito il riso, che però stentò a essere accettato nel Sud Italia, dove esso veniva associato a condizioni di povertà o alle razioni propinate ai soldati durante la Grande Guerra. Quel che importava, comunque, era che la dieta italiana fosse improntata a sobrietà e austerità.
A partire dal 1936, però, si assistette a una vera e propria penuria di cibo, che nell’arco di dieci anni portò l’apporto calorico quotidiano al di sotto delle 2000 calorie, con grande preoccupazione di medici e scienziati ma anche dei gourmands, che temevano un impoverimento dell’elaborata cucina italiana. L’austerità divenne comunque uno stile di vita nell’Italia dell’epoca, al punto che, negli anni del miracolo economico, per lungo tempo si continuò a seguire il modello alimentare fascista, fatto di polenta, riso e dell’immancabile minestra.
Negli ultimi anni del regime la disastrosa situazione alimentare contribuì senza dubbio a scalfire il sostegno popolare al fascismo, dal momento che, come ebbe a ricordare il sindaco di Monza, gli stomaci non hanno ideali: conservatori quando sono pieni, diventano anarchici se sono vuoti.