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Cosa mangiavano gli italiani a tavola prima dell’Italia?

Molto tempo prima del progetto di unificazione politica, un’identità italiana esisteva già. Ed era un’identità gastronomica. Così nel 1891 la straordinaria eterogeneità della nostra cucina finì in un ricettario composto per corrispondenza, come un blog ante litteram.
A cura di Laura Di Fiore
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“I maccheroni non sono ancora cotti, ma quanto alle arance, che sono già sulla nostra tavola, ci prepariamo a mangiarle”. Così Cavour, in una lettera del 26 luglio 1860, si riferiva alle imminenti imprese nel regno napoletano e in Sicilia. Le metafore culinarie utilizzate nel suo messaggio in codice potrebbero indurre a sarcastiche interpretazioni sul fatto che l’esercito piemontese si preparasse a fare del sud un sol boccone. Quel che invece esprime il linguaggio di Cavour è piuttosto la consapevolezza della varietà delle tradizioni gastronomiche dei diversi luoghi della penisola e dell’importanza di ciascuna di esse per costruire un pranzo perfetto, che venisse riconosciuto come specificamente italiano.

Perché in effetti, molto tempo prima del progetto di unificazione politica, un’identità italiana esisteva già. E, come ci racconta Massimo Montanari, era un’identità gastronomica. Un modello alimentare “italiano”, riconoscibile nei suoi tratti distintivi ancora oggi, cominciò a delinearsi in epoca medievale. E fin d’allora si sviluppò non attraverso un’irradiazione omogenea a partire da un unico centro – come nei casi francese, inglese e spagnolo – bensì attraverso una modalità di rete.

Vale a dire che i centri cittadini italiani, ciascuno con i propri prodotti e le proprie tradizioni culinarie, crearono uno spazio condiviso in cui circolavano, insieme con le persone, modelli culturali e abitudini alimentari che ben presto contribuirono a delineare una cucina “italiana”.

Questo modello policentrico di cucina avrebbe attraversato diversi secoli e, al momento dell’unificazione, non sarebbe stato percepito in alcun modo come problematico per una nuova identità italiana. Anzi. Qualcuno pensò che il neonato paese avesse bisogno di un ricettario nazionale. E come lo costruì? Raccogliendo ricette locali rappresentative di tutta la penisola in un libro, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. L’autore, Pellegrino Artusi, romagnolo poi emigrato a Firenze, lo pubblicò nel 1891.

L’aspetto più straordinario della storia del nostro primo ricettario è che esso venne implementato per corrispondenza, in maniera non troppo dissimile dai moderni blog di cucina a cui quasi tutti ricorriamo nel momento del bisogno e che qualcuno più bravo (di me) arricchisce anche con le sue ricette. Le lettrici di Artusi, infatti, presero a indirizzargli delle lettere con suggerimenti e ricette delle proprie terre, così che il ricettario si arricchì progressivamente fino a contare, dalle 475 iniziali, ben 790 ricette provenienti da diversi luoghi d’Italia.

Quindi identità italiana sì, ma non intesa come un quadro monocromatico, in cui può essere difficile riconoscersi. Ma come un mosaico i cui singoli pezzi conservano la loro preziosa e profumata specificità e la cui combinazione crea una delle cucine più (buone e) apprezzate al mondo. E forse la chiave polifonica suggerita dalla nostra cucina resta quella più adatta a definire un’identità italiana che non risulti aleatoria o vessatoria, ma che rifletta la nostra deliziosa eterogeneità.

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Nata nel 1979, vivo a Napoli e ho due gemelli. Sono ricercatrice in storia, (al momento) a Bologna, e ho pubblicato due monografie: Alla frontiera. Confini e documenti di identità nel Mezzogiorno continentale preunitario (Rubbettino 2013) e L’Islam e l’impero. Il Medio Oriente di Toynbee all’indomani della Grande guerra (Viella 2015).
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