Cormac McCarthy raccontato da Raul Montanari: “Vi spiego perché è un gigante della letteratura mondiale”
La morte di Cormac McCarthy è quella di uno scrittore considerato tra quelli degni di essere inclusi nell'Olimpo della Letteratura contemporanea, quella del famoso Canone letterario, colui che ha scritto capolavori della Letteratura contemporanea come Meridiano di sangue, Non è un paese per vecchi e La strada, esplorandone i generi, e soprattutto affrontando il tema del male. Lo sa bene Raul Montanari, uno dei migliori scrittori italiani, che ama confrontarsi col noir – il suo ultimo libro è "Il disegno Magico" (Baldini+Castoldi), ma anche la principale voce italiana dello scrittore americano. Sono sue, infatti, le traduzioni di libri come "Meridiano di sangue", "Il buio fuori", "Città della pianura" e "Figlio di dio". Pochi ne conoscono meglio la lingua, i libri, e per questo gli abbiamo chiesto di parlarci di McCarthy, del suo rapporto con le sue pagine: una chiacchierata che è un piccolo trattato di traduzione e letteratura.
Di Cormac McCarthy hai tradotto libri come "Meridiano di sangue", "Il buio fuori", "Città della pianura" e "Figlio di dio", insomma sei la voce dello scrittore per molti italiani. Come nacquero queste traduzioni?
Nacquero quando Einaudi mi chiamò per farmi fare una prova di traduzione, tra l'altro avevo anche fatto un po' di errori, perché non sono mai stato un autore e traduttore pulito, impeccabile, quello che gli davo era la ricostruzione di uno stile. Sono un traduttore molto fallace, per cui all'Einaudi c'era Marisa Caramella, a sua volta grande traduttrice, che mi toglieva gli errori uno a uno, faceva la revisione della traduzione, cosa che dovrebbe essere normale per una traduzione seria. Loro erano contenti, però, che ci fosse questa aggressività sulla pagina.
Erano già usciti libri di McCarthy, nel frattempo, però, giusto?
Sì, quando mi hanno chiamato erano usciti sicuramente i primi due della Trilogia della frontiera, cioè "Cavalli selvaggi" – inizialmente con Guida, poi a Einaudi – e "Oltre il confine". Io sono quello che ha il record, però, perché ne ho tradotti quattro, Martina Testa ha tradotto i due più famosi, ovvero "Non è un paese per vecchi" e "La strada", Maurizia Barmelli, che è molto brava, ha tradotto gli ultimi due, ovvero "Il passeggero" e "Stella Maris", che uscirà a settembre, e anche "Suttree", che è uno dei più belli. Una cosa che non viene detta spesso è che col tempo, da un certo momento in avanti, McCarthy ha un po' alleggerito la mano, è diventato un autore più accessibile per un traduttore. Quando ho tradotto l'ultimo della Trilogia, "Città della pianura", mi sembrava addirittura un'altra voce, era molto più rilassato.
In che senso?
Diciamo che i suoi libri, a partire dagli anni '90, sono libri che si impongono per la bellezza delle visioni, delle idee, della forza narrativa, ma non c'è più quello stile davvero unico, pazzesco, che aveva all'inizio e che ha la sua celebrazione in "Meridiano di sangue", il suo capolavoro dal punto di vista puramente letterario, perché c'è una riflessione sulla violenza, sulla guerra, davvero inedita. Ti assicuro che c'era da sputare sangue.
Alla fine sei stato colui che ha dato il tono di McCarthy sulla pagina per noi italiani.
Maurizia Balmelli, molto simpaticamente, in un'intervista riconobbe che l'intuizione più esatta della lingua di McCarthy l'avevo avuta io e lei era d'accordo: fu quando l'avevo definito uno stile dondolante, perché sembrava di essere sul cavallo e si sentiva questo alternarsi del peso da uno zoccolo all'altro. Tutti gli scrittori hanno una voce, una voce che è fatta di cose anche un po' nascoste, per esempio Henry James era il maestro dello stile binario, del dire una cosa e poi aggiungere nella seconda parte della frase un'avversativa. La voce di McCarthy è unica, non è esattamente scorrevole, ha proprio questo ritmo da vero western, e anche quando poi non ha più fatto i western ti rimane quel sapore molto particolare, di movimento su grandi spazi.
Lo conoscevi già prima di tradurlo?
No, non lo conoscevo: la storia di McCarthy in Italia è quella di un mancato successo iniziale. Il suo primo romanzo, "Il guardiano del frutteto", tradotto da Silvia Pareschi molto più tardi, l'ha scritto che era molto giovane, all'inizio degli anni 60. Arrivato in Italia, questo romanzo era finito nelle mani di Elio Vittorini in Mondadori, era il 65, e lui l'aveva bocciato, aveva ritenuto di non farlo tradurre e pubblicare per un motivo che ci può sembrare veramente strano e invece forse non lo è. Vittorini, infatti, lo aveva definito "troppo letterario", aveva detto che si vedevano troppo le letture di questo giovane autore, Faulkner in particolare, pensava che mancasse un po' di vita in quel romanzo, che fosse troppo derivativo. La cosa curiosa è che Vittorini morì poco dopo aver dato questo giudizio e il romanzo finì in mano a Oreste del Buono, che aveva chiaramente un temperamento completamente diverso e lui, invece, era favorevole alla pubblicazione del libro spiegandolo così: "Sono abbastanza d'accordo con le cose che dice Vittorini, ma non con il giudizio di valore, perché secondo me dentro questo autore che a lui sembra così letterario c'è una certa forza esplosiva e grandissima". Però, alla fine, il comitato di redazione ritenne di non pubblicarlo, quindi McCarthy, che in Italia è esploso negli anni '90, avrebbe potuto essere pubblicato trent'anni prima, vedi come sono strani questi destini letterari.
Le traduzioni di quei quattro libri sono sempre le tue, nessuno ci ha messo mano, giusto?
Sì, perché se non ci sono errori grossi nessuno cambia la traduzione, anche perché per un editore è un costo notevole: uno dei motivi per cui un editore, se può, pubblica un autore italiano è che la traduzione costa e questo è anche uno dei motivi per cui ci sono tante brutte traduzioni in giro, perché vengono sottopagate e fatte fare in fretta e furia.
A volte i traduttori parlano con gli autori, per chiarire passaggi, ma immagino che parlare con McCarthy fosse impossibile…
Assolutamente impossibile, poi devo dirti che comunque non sono davvero quel tipo di traduttore. Tranne con uno non mi è mai successo di chiedere dei chiarimenti, e anche con McCarthy ho fatto da solo. Diciamo che ero considerato uno specialista dei libri intraducibili perché ritenevano che comunque me la sarei cavata, qualche volta me la cavavo andando di intuito. Non dimenticherò mai una pagina de Il buio fuori, altro suo capolavoro, peraltro un romanzo ancora più difficile di Meridiano di sangue, meno disteso, più contratto, più concentrato. Ricordo questa pagina che non sembrava neanche scritta in lingua inglese, era incomprensibile: c'era la descrizione di una di una cosa violenta che avveniva di notte, in un bosco, che andava in un crescendo di incomprensibilità che era impressionante. Alla fine ho cercato vagamente di capire cosa diavolo stesse dicendo e ci ho messo le parole mie. La regola numero uno del traduttore letterario, infatti, è che le parole che il lettore deve leggere devono avere una coerenza, un ritmo, un senso per lui, tu non puoi mai mettere degli intoppi nella traduzione, delle cose che suonano strane e poi dire al lettore "Guarda che è così nell'originale", una volta che hai licenziato il testo, è quello, per cui quando è necessario, la traduzione un po' libera è d'obbligo.
Quali erano le difficoltà o particolarità nella traduzione dei suoi libri?
Nel caso di McCarthy c'è il problema di un lessico ricchissimo, a cui si aggiunge un rapporto molto forte con la scienza, altra cosa che sembra abbastanza strana, infatti collaborava con Santa Fè Institute, praticamente un circolo di professori universitari che si dedicavano alle Scienze. Questa cosa la vedi anche in Meridiano di sangue, dove ci sono delle descrizioni d'ambiente in cui si sente moltissimo lo sguardo da geologo, cioè uno sguardo che non ricerca semplicemente il pittoresco da quadro, ma che va molto a fondo nell'analizzare la storia di come si è formata una certa roccia. Questa cosa la fa continuamente per cui già solo capire da che serbatoio lessicale lui sta attingendo o perché quella parola che hai tradotto in un certo modo fino a quel momento, invece in un altro punto ha un significato completamente diverso, è difficile. Poi in quei libri western c'è una fortissima presenza dello spagnolo, per esempio nei dialoghi molto spesso i personaggi parlano quasi esclusivamente in spagnolo: ora, lo spagnolo lo lasciavamo in spagnolo, perché una regola della traduzione editoriale è che quando trovi qualche cosa in una lingua che non è quella dell'autore, va lasciata così, non la devi tradurre.
Il famoso "in italiano nel testo" che troviamo nei libri tradotti.
Esatto, però il problema è che devi comunque capire cosa dicono, non è che puoi tranquillizzarti e saltare quelle pagine, perché devi capire cosa sta succedendo, cosa stanno dicendo, perché è la storia che va avanti, e tu devi essere aderente alla storia, come traduttore. Quindi mi ricordo che mi sono comprato un bellissimo vocabolario di spagnolo e grazie a lui ho anche imparato un po' di spagnolo.
Uno dei suoi personaggi più famosi è il giudice Holden…
Il giudice Holden è un personaggio particolare, è il punto d'arrivo di una tradizione del cattivo affascinante, intellettuale, che secondo me inizia con Long John Silver dell'Isola del tesoro di Stevenson. Per quelli della mia generazione L'isola del tesoro era un passaggio obbligato, uno dei libri del canone dei ragazzini: quando lessi L'isola del Tesoro, al di là della storia dei pirati, del fascino dell'avventura, mi trovai davanti una cosa molto sorprendente, cioè per la prima volta ho trovato un personaggio malvagio, Long John Silver, che era più figo di quelli buoni, era dichiaratamente più intelligente, più versatile, più odisseico, più svelto di pensiero, più spregiudicato, più adattabile perché in fondo l'intelligenza è quella, adattarsi alle situazioni. È più divertente, più ironico, più simpatico, non c'è niente da fare, è un personaggio che rimane e quello è un piccolo shock per un ragazzino, scoprire il fascino del male. E quel che diciamo grandi malvagi affascinanti, culminano nel giudice Holden e personaggi come Hannibal Lecter che nonostante le cose terribili che fa, non puoi fare a meno di ammirarlo e trovarlo figo, cool, perché è più intelligente degli altri ed è anche più simpatico e divertente degli altri, nelle cose che dice.
Qual è una cosa inconfondibile di McCarthy?
Pur essendo uno scrittore di grande realismo, così preciso nel rendere i paesaggi, i movimenti, i corpi, ecc. nei dialoghi non è per niente realistico. Lui prende questi personaggi miserabili, questi banditi, vagabondi e li fa parlare come dei filosofi, dei teologi, gli fa dire queste cose altissime, profondissime, fregandosene di cercare di adeguare il loro linguaggio a quello che realisticamente dovrebbe essere il linguaggio di persone che sicuramente non hanno studiato, che non dovrebbero avere la possibilità di averne uno così profondo, così ricco di pensieri elaborati e complessi. Lui fa dei dialoghi che sembrano platonici, con la differenza che Platone è più facile da leggere. Crea dei dialoghi platonici e li mette in bocca a questi personaggi che non hanno in teoria una vocazione sapienziale per quello che sono, ma lui gli fa dire comunque delle cose sapienziali. Questa forbice aperta tra l'estremo realismo di tutto ciò che è materiale, corporeo e questa astrattezza metafisica straordinaria dei dialoghi è una delle cifre di McCarthy, è una delle cose che fa solo lui, nessun altro scrive in questa maniera.
Tradurre McCarthy ha avuto influenza sulla tua scrittura, dal momento che tradurre un testo è qualcosa di diverso dal leggerlo e basta?
Tradurre un autore è una specie di forma di lettura intensificata, una lettura aumentata. Si potrebbe fare questo paragone: la differenza fra leggere un autore e tradurlo è la stessa che c'è fra ascoltare un musicista e suonarlo. L'atteggiamento è sempre quello, tu hai a che fare con qualcosa che è stato scritto da qualcun altro ma il livello di profondità e compenetrazione che hai con quella certa cosa scritta, inventata, creata da qualcun altro, è infinitamente superiore. A suo tempo, Aldo Busi, che è stato uno dei miei maestri, mi aveva detto: "Io considero la traduzione l'unica altra attività degna di uno scrittore", perché è proprio l'unica altra attività che aiuta lo scrittore a forzare i confini del suo stesso linguaggio e a espanderlo. Tutto questo è vero, cioè io sono diventato senz'altro uno scrittore più bravo traducendo McCarthy. Certo, avevo già una certa vocazione per l'esplorazione del male, della violenza, e McCarthy mi ha incoraggiato. La cosa che tiri fuori da McCarthy è che è possibile attraverso questi percorsi nelle zone buie dell'anima dire cose universali e profonde sull'uomo, cioè cose che non si esauriscono nella parabola semplice della storia, ma diventano risonanti, diventano di valore davvero filosofico per cui quello che con i miei mezzi, che non sono certo i suoi, cerco di fare come narratore è stare su questa strada. I miei libri assomigliano molto più a "Non è un paese per vecchi", a quel tipo di noir, non rigidamente poliziesco, non legato ai canoni del giallo, piuttosto che a quelli di autori noir del canone tipo Chandler da cui io non ho preso niente.
Mi hai risposto in maniera diluita ma te lo chiedo ancora: perché secondo te McCarthy è un gigante della letteratura mondiale?
Lo è perché ha affrontato con i mezzi del romanzo delle tematiche che sono nella vita di tutti quanti noi, in particolare un certo tipo di tematica, ovvero la compresenza del male nella vita umana, il fatto che il male è qualcosa di fronte a cui il semplice rifiuto è un atteggiamento insufficiente: non è sufficiente né far finta di niente, né voltare le spalle, né dire "queste cose le fanno loro, non le faccio io, non le facciamo noi". Ecco, McCarthy è uno di quegli autori che ci hanno insegnato che uno scrittore – ma in realtà anche un lettore, perché il lettore diventa alleato dello scrittore, guarda la storia con gli stessi occhi con l'ha guardata lo scrittore – è uno che non dice mai "loro", dice sempre "noi", non dice mai "lui fa questo", dice sempre "io faccio questo", cioè l'uomo fa questo, quindi io riconosco in me, in quanto uomo, anche l'espressione estrema di comportamenti violenti che nella cronaca della mia vita, nella biografia della mia vita, non si trovano, ma si trovano comunque in certe profondità insondabili, anche inconfessabili, delle mie fantasie e dei miei pensieri.
Spiegami meglio questo meccanismo.
Il male c'è e deve essere accolto per essere neutralizzato, non lo puoi tenere fuori. McCarthy realizza perfettamente l'insegnamento della tragedia greca, non a caso per lui si è parlato di letteratura epica, ma anche tragica, cioè si parla di lui come di un autore che ha questo sapore davvero di classicità, che è quello che muove il finale delle Eumenidi, quando la Dea Atena scende dall'Olimpo e chiede che questi spiriti della vendetta, le Erinni, vengano accolti dentro le mura di Atena, appunto, la città civile per eccellenza, come a dire che se il male lo lasciamo fuori dalle mura fa più danno, dobbiamo riconoscerlo in noi, guardarlo per quello che è e a quel punto capirlo e farci i conti. Non si può lasciarlo fuori, non c'è niente che si sottrae alla letteratura. Da questo punto di vista, forse, in Meridiano di sangue la scena più terrificante è quella del cagnolino, quando il Giudice ne compra uno, lo getta nel fiume e lo fa annegare. Questo gesto è talmente gratuito, talmente folle, che persino uno dei suoi, di questi che vivono ammazzando gli Apache e togliendogli gli scalpi, si ribella, l'affronta, urla, si incazza perché è troppo terribile questa cosa fatta a una creatura completamente innocente, che non ha nemmeno il peccato originale che ha un uomo. Ecco, non bisogna avere paura della rappresentazione del male, perché far finta che non ci sia, lasciarlo nell'angolino buio o addirittura appena fuori della porta, significa darle forza. Certo, posso anche dirti, personalmente, che rappresentarlo costa dolore, fatica. Non è facile questa esplorazione che fai anche in te stesso, come scrittore, per proporre al lettore una visione onesta del male dentro di noi e McCarthy, da questo punto di vista è stato davvero un eroe. Così come Bukowski definì John Fante un santo della Letteratura, per me McCarthy è un santo della Letteratura, ovvero uno che è andato dove altri non avevano il coraggio di andare.
In che modo, per esempio, la tua indagine personale sul male la troviamo anche ne Il disegno magico?
Il disegno magico è il primo romanzo che scrivo il cui motore narrativo è la vendetta. Dal momento che viviamo fin da piccoli in un mondo in cui percepiamo di subire dei torti, di fronte a un torto e allo squilibrio di quel bilancio tra il dare e l'avere nei confronti del mondo che tutti noi teniamo, il torto esige sempre una compensazione. Ora, la vendetta è la forma ovviamente più aggressiva, più violenta, più malefica di ricerca di una compensazione, così in questo caso ho voluto esaminare un tema che probabilmente nella vita mi appartiene poco – perché non sono una persona vendicativa e forse per questo soltanto il 18º romanzo l'ho affrontato in maniera così radicale -, ma in cui c'è l'insegnamento dei grandi autori che ho amato, ovvero di non indietreggiare di fronte a niente nella rappresentazione di ciò che è l'uomo. Ripeto, non lasciare nessun angolino buio, niente si deve sottrarre allo sguardo di chi scrive, niente, altrimenti acquista forza, diventa pericolosa.