Chiedo un parere allo studio di un architetto di fama internazionale perché ci ho un muretto nell’oliveta che non mi dà affidabilità: «Questo muro sta cedendo?»
Lo studio accetta di dare un parere su qualcosa del genere solo perché i responsabili sono divertiti e pago sull’unghia una cifra smodata; manda degli esperti che fanno le rilevazioni del caso, fotografano, misurano, sondano.
Dopo una settimana mi arriva la relazione: il muro è dritto, fatto a piombo, è solido, poggia su terreno saldo ed è probabile che resista anche a un terremoto – e in effetti risale agli anni ’40 dell’Ottocento, quindi ne ha visti parecchi.
Arriva Sempronio, il mio vicino che fa il vino con troppo zolfo, e mi dice: «Eh, ma no, questi qui sono di manica larga, e poi son giovani, fanno la fotina e credono di capire ogni cosa, ma qui te lo dico io sta venendo giù tutto».
A chi do credito?
Tutti sanno tutto
La nostra società conosce un male generale e curioso: la gente ha visto la Scienza tirare giù dal trono le antiche Autorità, ha udito il fragore dei dogmi che si infrangevano sul duro pavimento della realtà; così ha pensato di poter fare lo stesso con la Scienza – come il bambino che imita senza aver capito che cosa sta imitando. Il risultato è che tutto deve essere politica. Sui social network tutti parliamo al medesimo livello, quindi anche ogni opinione deve avere il medesimo valore, perfino in materie scientifiche – anzi in tutte le materie. Ad esempio, di recente siamo diventati tutti costituzionalisti – e non paiono molte le persone che sanno accettare di non saperne abbastanza su qualcosa per esprimervi un'opinione.
Questo avviene in molti campi – talvolta non senza vittime, pensiamo al mondo della medicina. Ma nel campo della lingua questo fenomeno si manifesta in una maniera sapida, gustosa, ridicola e tutto sommato innocua: il semi-competente ritiene il vero esperto un pappamolla, e si arrocca sull’affermazione di norme granitiche, sul sussiego della dignità di un’antica età dell’oro di vera cultura contro la barbarie dilagante.
Un esempio straordinario di questa tendenza è la pagina Facebook dell’Accademia della Crusca: su cento questioni interessanti presenta lo stato dell’arte tratteggiato dai maestri più alti, ma quando la questione è appena un po’ calda e suona nell'orecchio del lettore quel tanto che basta perché abbia un'opinione in merito, ecco subito le decine di Tizio e Caio che commentano con deluso sprezzo, giaculando amare profezie – come Sempronio col muretto. Non dico senza rispetto per i vertici del sapere del campo, ma senza nemmeno provare a capire quello che viene scritto, sovente senza nemmeno leggerlo: il titolo basta, ho già inteso l’aria che tira, lasciami dire la mia.
La Crusca afferma che ‘petaloso’ è una parola correttamente formata? «Come sono caduti in basso.»
Il professor Sabatini dice – come centinaia di linguisti da decine di anni – che il congiuntivo non ha da temere, che si deve lavorare sulla capacità di muoversi fra registri differenti e che le alternanze problematiche con l’indicativo sono vecchie come l’italiano stesso? «Eh ma siamo in un periodo in cui la lingua si impoverisce, perfino questi qua che dovrebbero difendere la lingua italiana la squalificano. Bah, che tristezza, dove andremo a finire.»
Sì, va bene, il congiuntivo è importante ma
Nessuno mette in dubbio che il congiuntivo sia importante, e che sia un modo di grande valore: per noi è l’alveo del potere mentale dell’ipotesi. Ed è vivissimo: provate a sbagliarne uno in un annuncio pubblicitario e poi vedete l’effetto che ottenete. Quando un politico di spicco ne sbaglia uno i giornali ne parlano per giorni e giorni. Già solo questo ci dovrebbe tranquillizzare: la vitalità della norma si vede (anche) dalla puntualità della sanzione.
Semplicemente è un modo piuttosto lento. Richiede una certa elaborazione, a cui non sempre la fretta di comunicare lascia spazio. In questo senso ha anche dei problemi strutturali: ad esempio, nel congiuntivo presente prima, seconda e terza persona singolari sono uguali. Il che – caso unico della lingua italiana – impone di specificare il soggetto.
«Voglio che mi faccia da mangiare» Ma chi? Devo essere io a prepararti il pranzo o lo deve fare qualcun altro? «Voglio che tu mi faccia da mangiare.» Ah, ecco, e ti pareva.
«Voglio che dia ragione a me» Non si capisce, vuoi che io ti dia ragione o vuoi che sia la persona con cui hai discusso a farlo? «Voglio che tu dia ragione a me.» Nessun problema, allora: non te la do, hai torto marcio.
Non ci si stupisca se per rapidità – perché ‘sto muscolo della specificazione del soggetto verbale ce lo abbiamo proprio flaccido – quando non mi appare proprio necessario un parlare sorvegliato dico «Voglio che mi fai da mangiare» o «Voglio che dai ragione a me». Soggetto nel verbo e via, senza timore che intervengano i gendarmi.
Ciò che emerge con maggior forza riguardo al congiuntivo è che è un modo raffinato. Non solo dà il potere dell’ipotesi, ma anche quello dell’ascendente, della padronanza, del dominio sulla comunicazione. Niente mette in soggezione il bifolco come un congiuntivo ben assestato, niente nell’occasione formale ci fa avere più credito di un uso disinvolto del congiuntivo.
Anche questo carattere è però problematico: la smania di raffinatezza suggerisce spesso ‘ipercorrettismi’, cioè l’uso del congiuntivo anche quando non serve. Che sono più provinciali di un uso dubbio dell’indicativo.
Ma ecco, sono questioni di per sé non centrali. E c’è un perché.
Come si difende l'orso polare
Se da domani vi chiamano in un team di difesa dell'orso polare, che cos’è che vi ritrovate a fare? In realtà, a parte rendere identificabili e rintracciabili gli individui della vostra zona, con gli orsi non avrete molto a che fare. Dovrete proteggerli dai bracconieri, in certi casi, certo. Ma la difesa dell'orso polare passa inevitabilmente per la difesa dell’ecosistema: o lì si salvano tutti o non si salva nessuno – per quanto l'orso polare sia la bestia più ganza del pack.
La questione del congiuntivo, così come quella delle parole inglesi che stanno entrando nell’uso comune, ma anche come quelle del "ma però" o del "a me mi" o del "qual'è" è macroscopica e semplice: c’è un giusto, c’è uno sbagliato, ci sono i dotti e gli ignoranti, i difensori della tradizione e i barbari. Sono questioni superficiali su cui è facile schierarsi, in cui è facile intravedere una tessera della propria identità anche per l’occhio più smussato.
Se per difendere la propria lingua bastasse dire «Capra, devi usare il congiuntivo», allora sarebbe tutto in discesa – così come sarebbe più facile proteggere un animale in pericolo se fosse indipendente dal suo habitat. Ma non basta.
La lingua non va ‘difesa’ su quella dozzina di punti di grammatica in cui il semi-competente sa con irriflessa certezza dove è il giusto e dove è lo sbagliato – e che invece il vero esperto domina con discernimento, possibilismo ed equanimità. Va promossa, va fatta crescere.
Non si deve tenere al sicuro come una bambina fragile: dobbiamo essere noi la sua base sicura nel mondo. Si fa crescere qualcuno solo additandone i nemici, solo dicendogli che cosa non deve essere?
No. La paranoia non fa crescere.
Far crescere la lingua è difficilissimo. Va curato l’habitat. Va curata l’economia, il successo, il prestigio. Va curata la civiltà, l’estetica, l’etica. Va curato l’intrattenimento, sostenendo la buona letteratura, la buona televisione, il buon cinema, il buon teatro, l'iniziativa fertile e adatta al tempo.
Nella terra prospera e civile la lingua è prospera e civile.
Chi poi sotto sotto si compiace del vedersi su una brutta china, e nella più totale inerzia rimpiange un passato glorioso mai esistito, lo può fare anche in silenzio.
«Non lo vedo bene.»
«Ma no, sta benissimo».
«Ormai non è più come un tempo. È moribondo.»
«No, guardi, sono il medico curante, le dico che è in salute, ha solo bisogno di un ambiente positivo.»
«Secondo me muore. E lei non sta facendo niente.»
«Ma lei deve per forza stare qui?»