Oggi Juan Martín Guevara, fratello minore del “Che”, vive a Buenos Aires e commercia in sigari cubani, ma la sua vita non è stata sempre così tranquilla. Durante il regime militare, infatti, è stato più di otto anni in prigione per le sue attività politiche e a causa della parentela con Ernesto che ha inteso omaggiare fondando l’associazione “Sulle tracce del Che”. Dal 20 settembre è sugli scaffali nelle librerie italiane "Il Che mio fratello" (Giunti, pp. 352, 20 euro): un racconto intimo e appassionato, da fratello minore, di una figura leggendaria e avvolta nel mito, che come tutti sanno moriva mezzo secolo fa in Bolivia.
Anche per il suo tono vibrante e commovente, il volume scritto a quattro mani da Juan Martín Guevara con Armelle Vincent, corrispondente da Los Angeles per Le Figaro, risulta essere molto interessante, perché oltre a gettare nuova luce sul mito, restituisce il "Che" a una dimensione autentica, carnale e più umana, attraverso la lente della storia familiare inscindibile da quella politica. Oggi, dopo mezzo secolo dalla morte del suo carismatico fratello maggiore, Juan Martín Guevara ci racconta il suo "Che".
Quale è stato il suo rapporto con Ernesto?
Come dico sempre, non posso separare Ernesto dal "Che". Ernesto è mio fratello di sangue, mentre il "Che" è il mio compagno di idee. Da ragazzi avevamo la tipica amicizia di due fratelli, per me era semplicemente il maggiore di casa, che tuttavia non si è mai sostituto ai miei genitori. Fu uno splendido compagno di giochi, amavamo giocare a calcio. La cosa veramente difficile era averlo a casa, visto che era sempre in viaggio o a casa di qualche amico. Eppure, quando si trovava dalle nostre parti, era una gioia averlo accanto. Quando poi Ernesto è diventato il "Che" tutto è cambiato. Prima di raggiungerlo a Cuba, da ragazzo facevo militanza a livello studentesco, le nostre conversazioni riguardavano questioni politiche e sociali, i libri che leggevamo, lo studio. In generale, c'era sempre poco tempo, perché i suoi obblighi gli lasciavano poco spazio. Come disse una volta, a Cuba in quel momento "riposare o rilassarsi era un peccato".
Come sono stati i giorni della rivoluzione cabana per lei e la sua famiglia?
È difficile dire se la rivoluzione cubana ha smesso di essere una rivoluzione o se è ancora una rivoluzione. Relativamente a quel periodo, posso dirle che nel 1959 la rivoluzione era nell'aria. In quei tre mesi, da gennaio a marzo, avvertimmo soprattutto la mobilitazione popolare e la gioia della gente che sentiva di star finalmente abbandonando un'epoca buia per entrare in una nuova fase della storia, più giusta e luminosa. Per noi è stata un'esperienza unica. La rivoluzione a Cuba ha dimostrato che un piccolo paese, contadino e sotto dittatura da anni, poteva liberarsi se il suo popolo restava unito nella lotta.
Dodici anni dopo, Ernesto trovava la morte in Bolivia…
La morte del "Che" in Bolivia, assassinato dall'esercito e con il comando della CIA, è stato un colpo molto duro per tutti i giovani latinoamericani, non solo per noi. Dato che l'obiettivo del "Che" era liberare il Sudamerica dal colonialismo economico politico e culturale – che tuttora resta – il più grande debito della sua morte è nei confronti delle nuove generazioni.
Per lei e la sua famiglia quanto è stato difficile "sopravvivere" alla morte di un uomo diventato leggenda?
Per anni ho scelto di non avere a che fare con i media, evitando di dare interviste. Ciò mi ha consentito di interiorizzare le sue idee e farle mie, ma soprattutto mi ha permesso di "sopravvivere" alla sua perdita. Successivamente ho orientato la mia militanza cercando di umanizzare l'immagine di Ernesto, diffondendo le sue idee e far sì che si discutessero le sue proposte, che a mio parere sono ancora valide oggi.
Cosa pensa della situazione attuale in America Latina, in particolare a Cuba dopo la morte di Fidel e di quanto sta accadendo in Venezuela?
La situazione in America Latina è inscindibile dalla situazione generale del mondo. Un mondo sempre più controllato, militarizzato, concentrato in gruppi di potere economico e globale. Cuba e Venezuela fanno parte di questo mondo dove c'è la crisi dell'Europa, con tutto ciò a cui stiamo assistendo: la Brexit, la secessione in Catalogna, l'avanzata delle destra in Germania, senza dimenticare la situazione della Grecia. C'è poi tutto il capitolo mediorientale, la guerra in Siria, l'Isis e la questione africana. In questo contesto, come dicevo, ci sono anche Cuba e Venezuela, che attraversano anche loro, in un modo o nell'altro, gli alti e bassi di questa situazione.
E gli Stati Uniti?
Gli Stati Uniti sono il paese dove un pensionato di Las Vegas, che possiede più di quaranta armi, uccide quasi sessanta persone e ne ferisce almeno cinquecento. Un paese dove tutti possono comprare armi ovunque.
Chi è oggi Juan Martin Guevara, il fratello del Che?
Ho settantaquattro anni e dal punto di vista professionale sono ufficialmente un pensionato, ma in realtà sono molto impegnato nella diffusione delle idee "guevariste". Ora, con questo libro scritto assieme ad Armelle Vincent, sto cercando di umanizzare il mito del "Che". E, indubbiamente, esserne il fratello favorisce questa possibilità.
Che cosa resterà tra un secolo del messaggio di Che Guevara?
Recentemente ho dichiarato in un'intervista che le immagini più conosciute al mondo sono quelle di Gesù Cristo e del "Che". Un amico mi ha detto che forse avevo un po' esagerato. Non ho potuto che dargli ragione e così ho risposto: "Sì, è vero, però Cristo è stato ucciso duemila anni fa."