È l'8 gennaio 2020 quando Marius Ani Oulakolé sporge denuncia alla polizia di Abidjan, in Costa d'Avorio, per la scomparsa di suo figlio Ani Guibahi Laurent Barthélémy, detto Prince. Quarantotto ore dopo, la macchina della burocrazia arriverà a una tragica scoperta. Prince è quel ragazzino, di cui tutti abbiamo appreso con orrore la tragica fine, trovato cadavere nel vano del carrello di un aereo partito dalla Costa d'Avorio e atterrato a Parigi. Appresa quella tragedia, un'italiana presente in Costa d'Avorio, decide di recarsi da Marius e mossa inizialmente dalla volontà di farne un reportage, finisce per diventare invece un anello della catena di sostegno, per la famiglia, nel recuperare il corpo del ragazzo. Muove da questo a suo modo straordinario punto di vista il libro di Chiara Alessi, "Prince. Il corpo del figlio", edito da People.
Poco alla volta, infatti, nel dipanarsi delle pagine, che scorrono veloci e dense, il racconto di Marius Ani Oulakolé e Chiara Alessi si trasforma: da resoconto di una tragedia vista dal campo a filatura di una relazione emotiva e umana. Per arrivare a raccontarci una storia che non è solo una storia, per arrivare a dirci che le storie non bastano nemmeno a chi le scrive, e che un reporter e uno scrittore, hanno un compito che va al di là delle parole. Perché quando il dolore che hai davanti ti ha mutilato di ciò che avresti potuto dire, resta solo una zona muta, nelle cui secche è possibile rintracciare ciò che resta della nostra umanità fragile e condivisa.
Alle 8.30 del 25 gennaio, il nostro contatto con la famiglia di Barthélémy chiama il padre di Prince e gli annuncia che stiamo arrivando. Gli spiega come riconoscerci. Siamo su una macchina blu che si addentra tra baracche e detriti, per poi prendere una strada sterrata tra bambini che giocano, bancarelle di cibo di strada, lamiere arrugginite, palme, polvere, plastica. Non ci sono altre automobili, a parte la nostra, né blu né di altri colori. Neanche un europeo. Neanche un bianco. Eppure, nessuno pensa di usare me, o il colore della mia pelle, per segnalare a quell’uomo come individuarci.
Con l'ingresso agli inferi di detriti e baracche di Abidjan, inizia il racconto di Alessi. Da un lato l'occhio di chi racconta, dall'altro il papà che vuole ritrovare suo figlio. Provate a immaginare: ci riuscite? Perdere un figlio e ritrovarlo due giorni dopo dall'altra parte del mondo, senza sapere né come né perché è arrivato fin lì. Siamo al fulcro del libro, che scorre rapido, per immagini e riflessioni sul senso di quell'assurda tragedia. Che dentro di sé ne conta un'altra.
È la battaglia di un padre per riconoscere il corpo del figlio – della catena umana, di cui Alessi è protagonista – che decide di mettersi in volo verso Parigi, sullo stesso aereo dove Prince ha trovato la morte, per riportarlo a casa e dargli i funerali. Ed è così, come è indicato nei testi che confezionano il libro, che "Chiara e Marius raccontano quello che ogni giorno leggiamo sui giornali ma che non abbiamo ancora capito. Desideri, speranze, follie di un mondo guasto, ingiusto, diviso tra chi può tutto e chi quasi nulla. Come se fossimo umanità separate. Umanità che invece si possono incontrare, tra Abidjan, Parigi e Milano, e che condividono una storia e una parte di destino."
Il punto sono le storie. Perché l'orrore di noi lettori occidentali quando leggiamo certe notizie rischia di restare confinato entro il filo spinato della nostra cattiva coscienza limitato alle duemila battute di una "news". Se di quel ragazzo – che qualcuno chiama clandestino – morto nel vano del carrello di atterraggio di un aereo ne raccontiamo l'infanzia, se a quell'adolescente morto nel vano del carrello di atterraggio di un aereo diamo un nome, se di quel giovane uomo morto nel vano del carrello di atterraggio di un aereo ne raccontiamo la storia, la famiglia, il mondo dal quale proveniva, ecco, forse contribuiamo per quel che è possibile ad aggiungere un pezzo a quell'incredibile mosaico di vite e umanità che merita dignità e che invece troppe volte non ce l'ha, l'unica strada per sfuggire alle generalizzazioni della cronaca, alle onde di superficie sui social, agli schieramenti manichei e insensibili. Ogni volta che parliamo di un corpo, il corpo specifico di qualcuno, la letteratura salva se stessa e un pezzo di mondo.