In apparenza è una mera questione formale. Pochi giorni fa, infatti, il terremoto (durato appena poche ore) con cui il Tar del Lazio ha bocciato il decreto Franceschini, cioè la normativa che dal 1 gennaio 2015 regola la distribuzione dei finanziamenti statali allo spettacolo dal vivo (il Fus, 407 milioni di euro l'anno), poi il ricorso-lampo del Mibact al Consiglio di Stato e il ritorno del sereno, in attesa di una decisione nel merito. In mezzo ci sarà il referendum sulla Costituzione. In tal caso, se dovesse passare il sì, le competenze della giustizia amministrativa saranno completamente riformate.
In realtà, da un punto di vista simbolico e sostanziale quanto sta accadendo in questi giorni dimostra lo stato di assoluto degrado in cui versa il sistema teatrale italiano, reso ancor più evidente dal fatto che il tweet del ministro Franceschini è stato sufficiente per spegnere ogni fibrillazione. Se i pagamenti non sono a rischio qual è il problema? Nessuno. C'è la pappa, signore e signori, di cosa ci preoccupiamo? Del bello, del giusto, del futuro di chi verrà dopo di noi? Non sia mai.
I burocrati ministeriali
Da un lato una burocrazia ministeriale che intende riordinare un intero comparto dopo anni di immobilismo (il che, in sé, è un dato positivo) ma lo fa con un decreto giudicato da molti frettoloso e ricco di vulnus formali. Oltre ad alcuni discutibili aspetti di contenuto, come il favorire realtà sempre più grosse, sempre più mainstream, spingendo ai margini oppure fuori dal sistema tutte quelle esperienza minori che fino a oggi erano riuscite a tirare avanti e che rappresentavano il tessuto connettivo del teatro italiano.
Lobby e teatri nazionali
Ci stanno poi i potentati, i teatri nazionali e i grossi circuiti produttivi lautamente finanziati, ben nascosti e protetti dietro la presunta imparzialità del famigerato algoritmo ministeriale. Quelli che badano innanzitutto alla pappa, insomma, i signorotti locali che mettono in piedi stagioni teatrali belle o brutte (questo ormai non importa più a nessuno, pare) alimentando un incredibile sistema di clientele, amicizie, reti di reti capaci di tradire anche la più nobile delle tradizioni teatrali. Prendiamo un caso tra tutti, quello del Teatro Stabile di Napoli: che fine ha fatto la famosa scuola di formazione per gli attori promessa a Luca De Filippo prima che venisse a mancare, grazie a cui quel teatro è riuscita a garantirsi i requisiti per diventare teatro nazionale?
Teatranti di retroguardia
E poi? Dall'altra parte ci sono i teatranti di retroguardia, coloro che combattono l'algoritmo in nome dell'arte, del civismo visionario insito nelle loro opere (che perlopiù si auto attribuiscono), ma che in realtà direbbero no a qualsiasi riforma ne possa mettere in discussione la loro micragnosa rendita di posizione. Di chi parliamo? Dei teatranti di terza e quarta generazione, mogli, mariti, amanti che spesso per meriti non loro hanno avuto la fortuna di gestire una sala, di fare teatro, di calcare le tavole di un palcoscenico, ma che nonostante i loro brutti spettacoli continuano a occupare caselle per veder realizzata la loro ennesima, inutile produzione. Come dire: morti i vecchi boss, che almeno avevano l'autorità e la qualità artistica per imporsi e ottenere le prebende dal potente o dal partito di turno, adesso son rimasti tanti giovani ma avvizziti operatori dello spettacolo che, esattamente come nel sistema criminale, rendono instabile e ancor più pericolosa la piazza.
Il teatro non ha mercato e deve essere sovvenzionato – ne sono ancora convinto nonostante questa gente abbia mandato in macerie una delle più nobili forme d'arte italiane – ma se ciò significa dover dare un posto di lavoro a vita a gente che non lo merita e che pretende la patente d'artista, allora sarà il caso di riabilitare presso gli italiani tutta l'epopea della Salerno-Reggio Calabria. Anche la terza corsia, in fondo, è arte.