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Che cosa ci ha insegnato un anno senza Michela Murgia

Murgia, che sapeva di avere poco tempo da vivere, aveva quasi pianificato la sua morte, non solo tra i suoi affetti personali – la sua famiglia queer – ma anche consegnando alle sue lettrici e ai suoi lettori diversi testamenti. Un’eredità di parole pensate con cura, anticipando ciò che molti avrebbero pensato in quest’anno che è passato dal 15 agosto 2023: Michela, quanto avremmo ancora bisogno di te.
A cura di Jennifer Guerra
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Nell’elogio funebre del poeta e drammaturgo W. B. Yeats, Wystan Hugh Auden scrisse che le parole di un morto sopravvivono nelle viscere dei vivi. Nella poesia che gli dedicò, Auden descrive un mondo che va avanti come se niente fosse, sebbene sia stato toccato dalla tragica scomparsa dell’amico poeta. Michela Murgia se n’è andata un anno fa, non nel pieno dell’inverno come Yeats, ma in una calda giornata di agosto.

Murgia, che sapeva di avere poco tempo da vivere, aveva quasi pianificato la sua morte, non solo tra i suoi affetti personali – la sua famiglia queer – ma anche consegnando alle sue lettrici e ai suoi lettori diversi testamenti. Prima la raccolta di racconti Tre ciotole, definito da lei stessa un “alfabeto dell’addio”, nella famosa intervista ad Aldo Cazzullo in cui annunciava la sua diagnosi. Poi il libro postumo Dare la vita, un manifesto politico sulla maternità queer. Infine Ricordatemi come vi pare, un’autobiografia curata da Beppe Cottafavi e Alessandro Giammei e nata da una serie di interviste rilasciate dall’autrice in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo.

Un’eredità di parole pensate con cura, anticipando ciò che molti avrebbero pensato in quest’anno che è passato dal 15 agosto 2023: Michela, quanto avremmo ancora bisogno di te. Ci è mancata la tua voce nei giorni del femminicidio di Giulia Cecchettin; ci è mancata a celebrare il successo di C’è ancora domani; ci è mancata a resistere agli attacchi al diritto di aborto; ci è mancata a protezione delle famiglie arcobaleno; ci è mancata in questi giorni, quando siamo rimasti senza parole di fronte all’assurda e strumentale polemica contro Imane Khelif alle Olimpiadi. Tutte e tutti avremmo voluto un tuo articolo, un tuo post, un tuo video. Ci saremmo accontentati anche di una storia su Instagram, purché bucasse il silenzio che è rimasto.

Quando era in vita, era proprio questa sua capacità di commentare in maniera affilata tutto ciò che succedeva nel nostro Paese a esserle criticata. Da destra, le sue parole l’avevano resa un facile bersaglio della macchina dell’odio: Murgia la femminista rompiballe, la comunista, la buonista. Da sinistra, la si accusava di eccessivo presenzialismo, di occuparsi solo di forma e non di sostanza: Murgia l’opportunista, la scaltra, la moralista. Ma oggi che poche voci riescono a elevarsi come la sua, capace di infiammare l’opinione pubblica in un senso o nell’altro, ci siamo accorti che era proprio la sua capacità di tallonare gli eventi del nostro Paese a renderla una figura così imprescindibile.

Le sue parole non erano mai retoriche. Critiche, certo, spesso polemiche, ma sempre pensate e pesate. Murgia ci scuoteva e ci indignava perché non risparmiava nessuno, né i suoi avversari politici, né i suoi critici, né i suoi amici, men che meno se stessa. Ci obbligava a guardarci dentro, a interrogare sempre le nostre azioni prima di puntare il dito contro quelle degli altri.

La filosofa femminista Luisa Muraro ha scritto che il primo dono che ogni madre fa alla propria figlia è la parola. Ancora prima del parto, nella vita intrauterina la figlia ascolta la voce della madre e da lei è pensata, idealizzata. Le madri di cui parla Muraro non sono solo quelle naturali, ma anche quelle simboliche: nella vita di ogni donna, infatti, sopita da qualche parte c’è la voce di tutte le altre donne che sono venute prima di lei. Anche se Murgia e Muraro hanno avuto le loro divergenze, in particolare sulla gestazione per altri, nel libro Dare la vita anche lei scrive qualcosa di simile. Nel capitolo conclusivo, Cosa avrei raccontato a mia figlia quando ero un’altra, scrive che una madre “nutre [la figlia] di parole forti, di quelle parole che esistono per caricarle dei pesi che noi non siamo in grado da soli di portare”.

Non so dire se, pur avendo parlato e scritto estensivamente di maternità, Murgia avrebbe gradito di sentirsi dare della madre simbolica. Ma in questa promessa di parole forti che la scrittrice ha fatto a una figlia soltanto sognata c’è tutto il senso della comunità che Murgia è riuscita a costruire nei suoi cinquantuno anni di vita più uno di morte: quando i pesi sono troppo gravosi da sostenere, li si porta insieme. Anche senza di lei sono nati libri, podcast, collettivi, giornate di studio, murales. E anche se l’Italia non si sveglierà più con le sue nuove parole (fatto salvo qualche manoscritto inedito) oggi Murgia si trova come Yeats sparsa in cento città.

Morendo, è diventata le sue ammiratrici. E le sue parole, oggi, continuano a smuovere le nostre viscere.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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