Capèra: l’antico significato del termine napoletano, fra segreti di bellezza e pettegolezzi
Abilissima ad acconciare le chiome delle signore, la capèra era famosa anche per un’altra caratteristica molto particolare: quella di essere a conoscenza di ogni singolo fatto riguardante le sue clienti. Il lavoro era duro, a volte a stento bastava per mantenere la sua numerosissima famiglia, dunque perché non renderlo più apprezzabile arricchendo il servizio di trucco e parrucco con aneddoti, pettegolezzi e storie relative alle numerose clienti? È per questo che oggi, decenni dopo la scomparsa della capèra, si sente ancora parlare di lei con frequenza.
Bellezza e chiacchiere: il mestiere della capèra
Una parola da pronunciarsi rigorosamente con l’accento grave, aperta, ampia come i gesti che caratterizzavano l’attività principale della capèra: quella di acconciare le chiome delle donne, popolane o nobili che fossero. La capèra era infatti quella che oggi definiremmo una parrucchiera a domicilio, carica di forcine d’osso e della tipica “castagna”, una pinza di ferro che una volta scaldata veniva usata per lisciare o arricciare i capelli. Sempre in ordine, esempio di stile, pulizia e bellezza, come ci spiega lo scrittore napoletano Raffaele Mastriani: "veste sempre con molta nettezza ed anche con alquanta ricercatezza pel suo stato; ma in particolar modo il suo capo debbe essere specie di mostra, di campione e di modello".
Conosciamo la capèra dai racconti popolari, ma la sua figura non è passata inosservata nemmeno per la grande letteratura: Enzo Striano nel “Il resto di niente” colora i vicoli dei quartieri che hanno accompagnato la giovinezza partenopea di Eleonora Pimentel Fonseca con tantissime figure tipiche, tra cui proprio queste maestre di bellezza.
"Arrivò la capèra, una signora grossa e solenne. Crocchia nera lucida, puntata da spilloni con teste di perla, enormi orecchini d’oro. Lunghe catene pure d’oro le avvolgevano il collo, cascavano sopra il petto grandioso.(…) Si mise all'opera con gesti antichi, sicuri. La capèra solcava, frugava, arava nella chioma sparsa; pizzicava bande di capelli, attorcigliava, ficcava spille dalla capocchia d’oro, ogni tanto lucidava, disfaceva, ricominciava". La scena descritta da Striano è molto vicina a quella che è stata la principale attività delle capère fino al secondo dopoguerra.
“Tuppi”, treccine, acconciature pompose o semplici rimedi contro il diradarsi dei capelli, come l’aglio che veniva strofinato sulla cute “per uccidere il verme” che li fa cadere: la capèra era una vera e propria istituzione in fatto di bellezza. Non solo: la sua figura resta ancora oggi un simbolo della quotidianità popolare, un vivace pezzo di quel mosaico che doveva comporsi nei vicoli dei quartieri napoletani: era frequente che fuori dalle abitazioni sedessero le clienti, con la chioma sciolta al sole ad asciugare, e la capèra accanto a loro, indaffarata.
Una pettegola senza malizia
“Essere una capèra” vuol dire, nel gergo comune del dialetto partenopeo, dilettarsi nell'arte del pettegolezzo. Ma attenzione: benché molto brava nell'apprendere e riferire a terzi le vite altrui, la nobile capèra non scade mai nell'inciucio. Non è, come si dice a Napoli, una "inciucessa", poiché le sue storie non hanno mai l’obbiettivo di infamare o distruggere la reputazione delle proprie conoscenti: la capèra non è maliziosa. Almeno questo è ciò che vuole la tradizione.