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Bray cambia volto al teatro: stop ai direttori-registi

Nel dl Valore Cultura sono contenuti una serie di proveddimenti che riorganizzano in modo sostanziale l’assetto dei teatri di prosa e le modalità di erogazione dei fondi: stop ai direttori-registi, niente più scambi tra gli Stabili e spazio ai giovani autori.
A cura di Andrea Esposito
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In molti già parlano di rivoluzione, anche se nel paese del “Gattopardo” meglio andarci molto cauti. La notizia è che nel dl Valore Cultura, che verrà firmato dal ministro Bray entro il 9 gennaio, sono presenti una serie di norme che riorganizzano in modo sostanziale l’assetto dei teatri di prosa e le modalità di erogazione dei fondi.

Un cambio di rotta che dovrebbe sancire il passaggio da un modello ormai palesemente inefficace oltre che iniquo, ad un sistema capace sia di favorire una gestione più virtuosa delle risorse pubbliche, sia di smantellare i troppi potentati che da nord a sud hanno segnato profondamente il “sistema teatro” determinando peraltro l’isolamento dell’Italia in ambito europeo e internazionale.

Ma vediamo nel dettaglio le novità del decreto: innanzitutto, sparisce la storica denominazione “Teatro Stabile” che, a partire dall’immediato dopoguerra, grazie soprattutto a figure come Giorgio Strehler e Paolo Grassi, aveva inaugurato un nuovo modo di intendere il ruolo e il sostegno del pubblico nello spettacolo dal vivo. Quindi, tra breve, dovremo dire addio ai 17 Stabili pubblici a cui succederanno solo 4 teatri cosiddetti “Nazionali” (anche se il numero potrebbe di poco aumentare).

Per “Teatro Nazionale”, denominazione che deriva dal modello in vigore in Francia, il ministro Bray intende delle strutture che abbiano non meno di 1000 posti in sala e che garantiscano un’attività di programmazione “indipendente”. Ed ecco il primo punto fondamentale: la cancrena degli Stabili italiani è stata in parte determinata da un sistema di scambi (che gli interessati preferiscono chiamare “coproduzioni”) che ha finito con l’alimentare un circuito perverso in cui ciascun direttore “vende” i propri spettacoli e “compra” quelli dei suoi colleghi. Insomma un sistema circolare, chiuso e autosufficiente da cui sono tagliati fuori tutti coloro che non rientrano nella schiera degli “amici” (compagine che riflette i posizionamenti e le appartenenze politiche) e tutti quelli che avendo meno di cinquanta o sessanta anni non hanno fatto in tempo a rientrare nella Casta dei Direttori, a cui naturalmente deve essere garantita a giro una poltrona vitalizia (da Roma a Napoli a Venezia, Genova, Catania…). E dove finisce la qualità? E le nuove creatività? E la missione di ricerca e di promozione del valore artistico che, per statuto, ogni teatro Stabile deve perseguire? Per non parlare poi dell’internazionalità…

La seconda e importantissima novità, che fa da corollario alla prima, è proprio relativa a questa possibilità che i direttori hanno di continuare a fare anche i registi. Da ora non sarà più così: chi sceglie di ricoprire un ruolo tanto prestigioso quanto lautamente remunerato dovrà rinunciare alla possibilità di fare spettacoli con i fondi del teatro che dirige. Sparisce quindi l’ombra del conflitto di interessi che aleggia sull’intero sistema e a cui quasi nessuno è immune: da Gabriele Lavia a Mario Martone, da Luca De Fusco a Giuseppe Dipasquale.

Altra novità riguarda i criteri che un Teatro Nazionale deve obbligatoriamente adottare nella formulazione dei propri cartelloni: in primis, dare maggior spazio alle compagnie locali e ai giovani autori di cui dovranno essere messi in scena almeno due spettacoli l’anno; in secundis la tenuta in stagione di ogni singolo spettacolo che deve poter superare anche le due settimane (in molti evocano l’analogia col modello anglosassone). In sostanza cambia la funzione che un teatro svolge nel proprio territorio e con essa il criterio per ricevere fondi. Ciascun teatro, infatti, deve essere in grado di comunicare quanti attori assume, quanto spende, quanto ha fruttato ogni singolo spettacolo e se è riuscito o meno a valicare i confini nazionali. Tali parametri andranno a costituire una graduatoria direttamente connessa all’entità dei contributi. Questi ultimi, inoltre, anziché essere annuali, diventano triennali dando così la possibilità a ciascun teatro di poter programmare le stagioni senza l’incognita dei fondi che di anno in anno si assottigliano.

In più, accanto ai Teatri Nazionali, la cui dotazione dovrebbe ammontare intorno agli 8 milioni di euro, ci saranno circa una decina di “Teatri di interesse pubblico”, vale a dire teatri con sale da 500 posti, che dovranno presentare almeno uno spettacolo contemporaneo e una novità all’anno.

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Importanti cambiamenti anche per il mondo della danza, che da sempre soffre la difficoltà ad essere inserita nei cartelloni e a cui il Fus attualmente destina una quantità irrisoria di fondi: il decreto infatti favorisce la formazione di specifici circuiti a cui è riconosciuta l’equivalenza, ai fini dell’erogazione delle risorse, con quelli di prosa. Uno stimolo certamente necessario e atteso ad un comparto a cui nel resto del mondo è riconosciuta un’importanza centrale ma che in Italia è sempre stato considerato fanalino di coda dello spettacolo dal vivo.

In conclusione, tutti questi ammodernamenti hanno l’evidente obiettivo di legare qualità a investimenti, in altre parole, più un teatro riesce a mettere in campo progetti di riconosciuto valore artistico e culturale, maggiori saranno i fondi a cui potrà accedere, anche se, va detto, il monte complessivo non cambia rimanendo sui 62 milioni attuali. Sarebbe auspicabile un aumento, anche minimo, per infondere maggiore slancio al cambiamento.

Chissà come la prenderanno gli attuali direttori degli Stabili e gli addetti ai lavori, e chissà adesso cosa diranno tutti coloro che da anni denunciano l’iniquità di un sistema che là dove non spreca distribuisce con criteri feudali e clientelari costringendo molte giovani compagnie e registi di riconosciuto valore ad affermarsi sui palcoscenici europei essendo misconosciuti in patria. Questi provvedimenti sono senz’altro da approfondire (per esempio rispetto all’individuazione dei Teatri Nazionali le cui capienze previste sembrano molto al di sopra delle reali possibilità) e sono certamente perfettibili, soprattutto per quel che riguarda gli incentivi alle attività sul territorio o i recinti previsti per i giovani autori (lodevoli negli intenti, pericolosi nella pratica), ma almeno segnano un primo passo verso la creazione di un nuovo sistema teatrale italiano, moderno, internazionale e, si spera, non politicizzato.

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