Biennale Teatro 2015, un bilancio della prima settimana di festival
Il teatro contemporaneo parla tedesco, almeno stando a quanto abbiamo visto nella prima settimana di programmazione di Biennale Teatro 2015, il festival/college veneziano – che conta ben 43 edizioni – diretto dal regista catalano Àlex Rigola. Proprio lui, che è in carica dal 2010, ha il merito di aver dato vita in questi anni a un progetto bifronte, double-face, con una “mission” definita e una fisionomia ambivalente: per metà è un “best of” del teatro internazionale, quindi una vetrina con pochi pezzi pregiati tra cui importanti debutti; per l’altra, è un centro di formazione e aggiornamento per attori e drammaturghi, un “cantiere dell’arte”, a cui partecipano giovani artisti provenienti da ogni parte del mondo e Maestri di alto livello. Questi ultimi, però, non portano solo una grande produzione, ma pagano, per così dire, il “dazio” della formazione e taluni anche di un esito scenico, il che fa di questo festival un evento unicum. Quest’anno i Maestri sono ben 18: da Christoph Marthaler a Thomas Ostermeier, da Antonio Latella a Romeo Cestellucci, da Oskaras Korsunovas a Lluís Pasqual e Fabrice Murgia… più tre workshop di drammaturgia diretti da Yasmina Reza, Pascal Rambert, due autori francesi molto tradotti e rappresentati in tutto il mondo e il grande autore britannico Mark Ravenhill. Questa è, grosso modo, la “ricetta Rigola” per una rassegna che, al netto della crisi, ha sempre l’onere del proprio blasone e della propria storia.
Tornando all’inizio, si diceva del tedesco, che è stata almeno nella prima settimana la lingua ufficiale di questa Biennale. Prima di tutto il venerato Maestro Cristoph Marthaler, Leone d’Oro alla Carriera, che ha inaugurato il festival con il suo “Das Weisse vom Ei/Une île flottante”, collage di testi di Eugène Labiche, un autore classico del teatro leggero francese. Marthaler, tanto per essere chiari, è un po’ il Cristiano Ronaldo del teatro contemporaneo, un artista che ha un passo unico e inimitabile, uno stile personalissimo e immediatamente riconoscibile: il suo è un gioco costante con lo spettatore di cui mette in crisi valori, certezze e convenzioni. Con Marthaler non c’è canone che tenga: se per esempio in una scena ci sono momenti in cui divampa l’ironia (molto forte in quest'ultimo lavoro), lui d’un tratto congela il tempo e la ribalta; o ancora, quando la fissità espressiva di un quadro si fa troppo insistita, con un colpo riprende il tema e lascia deflagrare gli eventi in modo sempre curioso e inatteso. Al centro di questa complessa e imprevedibile macchina, però, c’è sempre l’uomo, in tutta la sua/nostra inadeguatezza, con i suoi/nostri bug psicologici. In definitiva, il teatro di Cristoph Marthaler è “musicale”, come spesso viene definito, per il modo in cui è “composto”, per le meravigliose "fioriture" che riesce a disegnare e per la sua struttura a “moduli”, ciascuno dei quali è un autentico modello di tensione. Impareggiabile.
Poi c'è Thomas Ostermeier, lo stimatissimo direttore della Schaubühne di Berlino, che il giorno seguente ha presentato la sua rilettura di “Il matrimonio di Maria Braun”, tratto dall’omonimo film di Rainer Werner Fassbinder, l’alfiere “maledetto” del cosiddetto nuovo cinema tedesco. Uno spettacolo tecnicamente ineccepibile che racconta, senza sbavature, la lotta di Maria Braun per uscire dalla miseria di una guerra persa. Sul piano estetico l'allestimento è una sorta di antologia o di catalogo dei topoi del teatro contemporaneo e suoi personali. Manca secondo me però il cuore, il rischio, quel baricentro (in)stabile che mette lo spettatore in uno stato di pericolo, a disagio, che lo urta. È un lavoro di ottima fattura, ma rischia un po' il format. Amabile.
E ancora Falk Richter che con “Never Forever” dà vita a una maratona verbale a più voci un po’ difficile da seguire con i sovratitoli. Fortuna che lo spettacolo, davvero "bien fait", alterna continuamente recitati a coreografie, queste ultime molto intense, allucinate e a tratti isteriche, accompagnate da musica elettronica a tutto volume: molto, ma molto, tedesco. Smart.
Insomma, per dirla con una battuta, un corso intensivo al Goethe Institut avrebbe dato meno frutti sul piano dell’arricchimento linguistico; unica variante al mood teutonico, lo spagnolo di Paco La Zaranda che con “El regimen del pienso” avrebbe potuto regalarci una serata di riposo innanzitutto per gli occhi (leggere i sovra titoli sugli schermi led alla lunga diventa molto faticoso, meglio quelli video proiettati) e di “calore” tipicamente iberico, anzi propriamente andaluso. E invece la serata si è presto trasformata in un disastro. “El regimen del pienso” è un testo farcito di luoghi comuni e ovvietà, lungo e inconcludente, con una messinscena (la scenografia è curata dallo stesso regista) francamente imbarazzante, con scaffali multiuso brutti e fastidiosamente rumorosi e mille fili sospesi, inutili, in cui gli attori non volutamente inciampano di continuo. La cosa peggiore però è la recitazione, più che sopra le righe, come si usa dire, proprio fuori dalle righe; una scelta, questa del direttore artistico Rigola, tutta da spiegare! Inqualificabile. Ad aggiustare la serata ci ha pensato poi l’eleganza, la tecnica e il cuore di un raffinato maestro come Lluís Pasqual, che qui si è cimentato con un testo di Lope De Vega, "El caballero de Olmedo", e un gruppo di giovani attori. Amabile con brio.
Ultimo degli spettacoli visti a Venezia è "Giulio Cesare. Pezzi staccati" di Romeo Castellucci, distillato del "Giulio Cesare" della Raffaello Sanzio del 1997. Castellucci è ormai un mostro sacro, amatissimo sia in patria che in giro per il mondo e per questo è sempre difficile parlare dei suoi lavori. La performance, ospitata nel cortile del Conservatorio Benedetto Marcello, non è inedita ma è site specific, o meglio "site adapted", e consta fondamentalmente di tre quadri. Vi dico solo che nel primo un attore fa il suo monologo con uno strumento laparoscopico (un tubicino flessibile con in cima una micro camera) infilato dal naso fino alla gola e dietro di lui si vede videoproiettata, in tempo reale, la laringe che si contrae e si espande. Una soluzione disgustosa ma efficacissima. In definitiva, stare a incensare la qualità, la fattura e la perizia dei quadri di Castellucci, siano essi "figure" mute e immobili o momenti più performativi, lascia un po' il tempo che trova. L'artista di Cesena è un patrimonio del teatro mondiale, un artista tanto radicale quanto, ormai, già classico. Questo lavoro inoltre è un piccolo frammento destinato in origine a un discorso sulla linguistica generale, un progetto che la città di Bologna gli ha dedicato lo scorso anno dal titolo "e la volpe disse al corvo" quindi difficile da valutare nel suo complesso, nella sua organicità. Implacabile.
Oltre a quanto detto, e così chiudiamo questo lungo articolo “minestrone”, abbiamo anche seguito il primo appuntamento del format diurno, anch’esso molto interessante, “Young italian brunch” che propone, soprattutto all’attenzione dei colleghi della stampa internazionale, nuove interessanti realtà della scena italiana. I protagonisti della prima giornata sono stati i ragazzi del “Collettivo cinetico” formazione non nuovissima ma comunque molto giovane, capitanata dalla regista Francesca Pennini. Il responso, però, dal mio punto di vista è dolorosamente negativo, “age”, lo spettacolo a cui ho assistito, ha uno spunto anche interessante ma sembra davvero poco adatto a riassumere e mettere in luce il lavoro di questo gruppo: è più uno studio, soffre di incompletezza, è monocorde, senza inizio e senza fine e quindi, pur essendo molto lavorato (gli attori, giovanissimi, sono davvero bravi e credibili), scivola pericolosamente nella gratuità. Un po' un'occasione persa… peccato davvero. Migliorabile.