Biennale Teatro 2015, Fabrice Murgia debutta con “Notre peur de n’être”
In occasione del debutto italiano di “Notre peur de n'être” (La nostra paura di non essere), nell’ambito della 43esima edizione di Biennale Teatro, abbiamo intervistato l’autore e regista belga, classe 1983, Fabrice Murgia. Lo scorso anno, proprio a Venezia, Murgia fu premiato con il Leone d’Argento con la seguente motivazione: “crea ambienti capaci di immergere lo spettatore in un magnetismo che lo avvicina alla parte più nascosta dell’essere umano”. In effetti, i suoi spettacoli esplorano la condizione umana e i disagi della società contemporanea con un linguaggio teatrale già molto specifico e riconoscibile che unisce teatro, video e musica. Lo abbiamo intervistato per voi per farci raccontare tre aspetti fondamentali della sua poetica: il tema della solitudine, onnipresente nei suoi lavori e declinato in molte forme diverse; il rapporto con i dispositivi video e in generale l’uso della tecnologia a teatro e infine, quale è, secondo lui, il teatro del futuro. Naturalmente abbiamo parlato con Fabrice del suo ultimo spettacolo, “Notre peur de n'être”, che debutta domani in prima italiana alla Biennale e che abbiamo visto in anteprima e di cui vi mostriamo alcuni estratti.
Un po’ di biografia
Fabrice Murgia nasce in Belgio a Verviers, provincia di Liegi, nel 1983 da madre spagnola e padre sardo. Si è formato al Conservatorio di Liegi (ESACT – École supérieure d’acteurs) privilegiando un approccio multidisciplinare tra teatro, cinema e televisione, aspetto che tutt’oggi contraddistingue i suoi spettacoli. È direttore della compagnia Artara, gruppo costituito da perfomer, video-artisti e musicisti. Tra il 2009 e il 2012 mette in scena sette lavori che gli permettono di girare mezza Europa dandogli una notorietà che culmina nel 2014 con il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia. Oggi Murgia, con i suoi 32 anni, è uno dei nuovi nomi del teatro europeo. Tra i suoi spettacoli di maggior successo vi segnaliamo: “Life:Reset / Chronique d'une ville épuisée”, “Dieu est un DJ” di Falk Richter; “Exils”, realizzato nell’ambito del progetto europeo “Cities on stage”.
Gli “highlights” dell’intervista
Abbiamo raggiunto Fabrice in una delle splendide sale dell’Arsenale dove si tengono i laboratori di Biennale College. Dopo il workshop dello scorso anno, infatti, Murgia è tornato a Venezia non solo per presentare il suo nuovo spettacolo, ma anche per lavorare con un gruppo di giovani attori e attrici sul tema “backstage memories”, all’interno del progetto “La terra trema”. Il tema centrale di questa master class è a dir poco stimolante: “Che utilità ha la cultura? Per la gente o per noi?”, una domanda che in un ambiente di nicchia e fortemente autoreferenziale come quello del teatro diventa prima di tutto un monito in sé e poi uno spunto di riflessione da cui iniziare a ripensare i modi e le forme di fare cultura. Tra i momenti più interessanti della nostra intervista a Fabrice c’è innanzitutto quello riferito al tema della solitudine che lui ci tiene a chiarire: “Più che la solitudine in sé, mi interessa capire il modo in cui le persone comunicano tra loro, o non comunicano”; poi c’è il discorso legato all’uso delle tecnologie a teatro: “Il teatro è sempre stato un’arte tecnologica, multidisciplinare, per me usare i dispositivi è come per un bambino giocare con le matite colorate”. Infine ci spiega qual è per lui il teatro del futuro: “Il teatro del futuro è il teatro del presente, che parla al pubblico qui e ora del proprio tempo”. L’intervista si conclude con una sua citazione da Jan Lauwers che dice: “Il teatro è, persone giuste, al posto giusto, ma nel momento sbagliato”.
Il nuovo spettacolo, “Notre peur de n'être”
Questo lavoro è stato accolto con grande favore al Festival d’Avignon ed ora debutta in prima italiana alla Biennale di Venezia. “La nostra paura di non-essere” è un’indagine sulla condizione umana a partire da uno dei disagi sociali più emblematici del nostro tempo, quello che i giapponesi – società che prima di ogni altra ha sperimentato i cortocircuiti tra spazio virtuale e mondo reale – chiamano sindrome “Hikikomori”. Ma chi sono gli “hikikomori”? Molto semplicemente con questo termine si indicano coloro che rifiutano qualsiasi contatto con l’esterno, qualsiasi relazione con l’altro che non sia filtrata da strumenti virtuali (computer, videogames…). Lo spettacolo di Murgia, mettendo al centro questa condizione, ripercorre le storie di tre personaggi: un vedovo, che in scena è costantemente rivolto al proprio smartphone; Sarah, una donna immigrata che dopo anni difficili in cerca di un futuro migliore si ritrova ad affrontare il disagio del figlio; e Hikki che è appunto suo figlio, affetto da sindrome “hikikomori”. Dal punto di vista stilistico, questo spettacolo è un po’ un punto di sintesi dell’estetica di Murgia, un mix molto personale e riconoscibile di video, teatro e musica: ambienti sonori molto cupi e disturbanti, videoproiezioni incrociate di immagini scenografiche e live view degli attori in scena; monologhi, più che dialoghi, all’interno di macchine sceniche semplici ma efficaci (pedane rotanti, porte mobili…).