Bebo racconta come sopravvivere al Capitalismo: “Ricordiamoci che la vita non è una gara”
Bebo de Lo Stato Sociale e l'attore Johnny Shock stanno portando in giro per l'Italia lo spettacolo teatrale "Le regole del gioco: come sopravvivere al Capitalismo" con la regia di Lodo Guenzi. Uno spettacolo in due atti in cui il musicista e l'attore raccontano in maniera ironica come sopravvivere ai nostri giorni. Un'esperienza che cera di mettere in pratica queste regole anche nella modalità di acquisto del biglietto che non sfrutta la prevendita e, di conseguenza, la cifra aggiuntiva che richiede. Abbiamo chiesto a Bebo – che questa sera sarà all'Arci Bellezza di Milano, il 15 e 16 aprile al Maite di Bergamo, il 4 e 5 maggio alla Residenza Idra di Brescia e il 6 maggio a Musici per Caso a Piacenza – di raccontarci come nasce questo spettacolo e com'è raccontare e combattere il Capitalismo vivendoci dentro con tutti i panni. Una discussione che ha portato anche a un ragionamento sul sistema di booking musicale in questi giorni, dopo due anni di pandemia.
Il Capitalismo è argomento che, come sappiamo, ti interessa da sempre. Quando è nata l’idea di farne anche uno spettacolo teatrale?
Il capitalismo è L’Argomento, come direbbe David Foster Wallace: questa è l’acqua. Ci viviamo immersi, ci ritroviamo a fronteggiare distorsioni e forzature che nella vita delle persone quasi sempre generano infelicità, quando non malessere o odio. Sono queste tre esperienze che mi hanno fatto pensare alla possibilità di tratteggiarle dentro ad uno spettacolo, perché –per una serie fortuita di eventi – mi sono ritrovato con Johnny Shock a scambiarci materiale proprio in quel verso. In quegli stessi mesi, grazie alla collaborazione con la compagnia teatrale Kepler ed Emilia Romagna Teatro, ho frequentato il presidio GKN di Campi Bisenzio e le persone che lo animano. Un’esperienza di produzione politica eccezionale, virtuosa, forte, che è partita da una meravigliosa domanda: come state? Lì la mia testa ha fatto click con un’altra domanda che fece Checco Draicchio in furgone, qualche tempo dopo Sanremo 2018: non sarà mica che siamo felici per contratto? Mi piace farmi domande, provo a darmi delle risposte e accetto di non avere soluzioni.
E come hai costruito il racconto?
Il racconto si è costruito epistolarmente con Johnny. L’abbiamo spinto sia con malizia che con intuito, cercando di far sì che la prima parte, quella in cui non siamo mai in relazione fisica, avesse una relazione morale, emotiva. Siamo di due generazioni diverse e consecutive: io ho 36 anni e Johnny 24, soffriamo di dinamiche che si somigliano malgrado i due punti di via molto distanti ed è stato divertente vedere come la nostra sofferenza vivesse su piani metaforici e reali così diversi e complementari. Johnny usa uno Youtuber come momento catartico, io appaio alla Madonna che –spoiler – assomiglia moltissimo a Chiara Ferragni. Lui è un piacentino prestato a Milano che sogna il teatro, io un bolognese in gita a Roma che si allena al bar. All’inizio eravamo preoccupati di scrivere una cosa “pesona”, all’esordio di Bologna ridevano tutti. Il bello teatro è questa roba qui, lavori per mesi a qualcosa e nel momento in cui sali lì sopra può capitare di tutto. Konstantin Stanislavskij portò a teatro numerose opere di Anton Čechov, quando l’autore era già molto anziano poco prima della sua morte si racconta ebbero uno scambio formidabile: Čechov credeva di aver scritto il suo dramma più forte, quando il regista tornò dalla prima rappresentazione esordì urlando: “Maestro, un successo! Si sono divertiti tutti!”. Se è successo a loro, figurati cosa capita a noi zappatori della drammaturgia.
La scelta di Lodo alla regia, invece, come nasce?
Lodo è uno che ha in canna dei talenti che molti non conoscono. Con lui mi confronto da sempre per capire che visione portare nei tour della band, visto che ne curo gli aspetti di produzione, quindi è stato naturale dirgli che eravamo in un vicolo cieco, che di quelle 18 pagine non sapevamo che farcene e ci voleva lui. Ha messo ordine in quello che avevamo creato e ci ha fornito una struttura drammaturgica chiara, ispirandosi al Godot di Beckett, tant’è che per un periodo lo spettacolo doveva intitolarsi “Aspettando Marx”, ma avrebbe fatto intuire una rilettura almeno parzialmente fedele del capolavoro dell’irlandese. L’assunto registico, specie per esperimenti come questo spettacolo, è fare tanto con poco, infatti è una messa in scena che sta in due zaini e due persone.
Uno dei problemi della critica al capitalismo è riuscire ad agire senza esserne fagocitati. Per questo, immagino, abbiate scelto un modo di acquisto biglietti particolare. Ce lo spieghi?
Penso che il sistema di prevendite abbia senso con i grandi eventi, ma per cose di piccola entità è giusto non avvalersi di questo servizio che, in quanto tale, si paga e, inevitabilmente, ricade sul pubblico. Al ristorante mica gli lasci 15€ di acconto per prenotare, allora perché farlo con uno spettacolo teatrale come il nostro o con un act musicale emergente? Alla fine chi partecipa a questi eventi dal vivo lo fa perché va a caccia di queste situazioni, sono persone abituate e motivate nell’affrontare qualcosa che non conoscono. Sono i nostri supereroi preferiti, sono le persone su cui appoggiarsi per costruire delle carriere (se hai anche fortuna). In questo modo ci possiamo permettere dei biglietti ragionevoli, su cui lucrano i lavoratori che partecipano alla serata: noi sul palco, il nostro tecnico e il promoter locale. A me sembra una cosa sensata, naturale, ti dirò di più: giusta. Se poi vuoi andare a vederti il grande nome di cui parlano tutti allora certo che ci vuole la prevendita e di conseguenza il biglietto alto, ma è come con la Ferrari: costa di più, pretendi di più. Quando esci di casa per lasciarti sorprendere da qualche sconosciuto fai già un atto nobile, è giusto che la filiera si comporti in linea con questo approccio.
Immagino che il titolo sia un’iperbole, o esiste veramente qualche regola per sopravvivere al capitalismo?
Sono regolette, intuizioni, niente di definitivo. Anche perché si sopravvive, appunto. Noi pensiamo che costruire una libertà collettiva sia più importante che liberarsi privatamente, e per 70 minuti cerchiamo di farlo con chi abbiamo davanti.
Tu riesci a immaginarla un’alternativa al Capitalismo oppure è vero che è più facile immaginare la fine del mondo che la sua fine?
Mark Fisher veglia su di noi, se fossi meglio di lui e avessi una risposta ti assicuro che pubblicherei un libro per Nero Edizioni.
Quali sono, in campo artistico, le principali trappole capitalistiche a cui fare attenzione?
Principali = infinite. Il capitalismo è la nostra acqua, ci comportiamo come preferiamo e come ci suggerisce di fare questa acqua, è difficilissimo riuscire a separare o creare delle pratiche che ti allontanino da questo grande gioco. Un aspetto molto evidente e comprensibile per tutti è il costo della vita: aumenta il costo della vita, non aumentano gli stipendi, scende il potere d’acquisto. Lo viviamo sulla nostra pelle, ma ci avete fatto caso all’aumento dei costi dei biglietti dei concerti? E avete fatto caso –no, non potete saperlo– che lo stipendio medio di un lavoratore dello spettacolo è rimasto identico? È un bel giochino, andate a controllare i vostri artisti preferiti che costano tranquillamente sopra i 30/35€ con quali agenzie di booking lavorano. Ecco, io forse sbaglierò in termini “di galateo” a dirlo, ma credo che le major del booking facciano bene solo a loro stesse perché adottano una politica speculativa e predatoria sul sistema di produzione culturale italiano, che è un sistema storicamente debole per i lavoratori e che si poggia su un gigante dai piedi di argilla: il pubblico. Il giorno che il pubblico ti volta le spalle sei finito, nel frattempo hai desertificato l’ambiente lavorativo e le corporate internazionali a cui ti sei affidato si sono messe in tasca i bigliettoni.
Cosa si può fare?
Dobbiamo ragionare come un sistema, in cui ogni anello è importante e delicato: artisti, tecnici, booker, management, promoter, e chiunque stia qui dentro, lavorando sulla realtà che viviamo e che desideriamo, senza lasciarci conquistare dall’avidità del momento. Vorrei avere un ego sufficiente per chiedere 35€ per un mio concerto in un momento così cupo per le economie delle persone. Non ce l’ho, nemmeno i miei migliori amici che sono anche la mia band e che forse assieme siamo degli scarsi o degli scemi, ma faremo anche noi concerti quest’estate: gratis o al massimo 5€. Ciao siamo Lo Stato Sociale, la musica della mutua.
Com’è fare arte all’interno di un sistema come questo?
Bellissimo perché è un costante esercizio di costruzione dell’immaginario. Bruttissimo perché è un sistema che ti mette in una posizione di concorrenza necessaria. A me i concorrenti non piacciono, la vita non è una gara.