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Archeologi italiani scoprono in Pakistan l’ingresso di un tempio buddista e stanze-frigo per il cibo

Nello scavo della missione italiana a Butkara, nel nord del Pakistan gli archeologi hanno messo in luce quella che sembra essere la via di accesso al santuario buddista e un antico sistema di conservazione del cibo destinato ai pellegrini.
A cura di Claudia Procentese
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Scavi italiani in Pakistan
Scavi italiani in Pakistan

Alessandro Magno è passato di lì durante il suo viaggio per la conquista dell’India nel 327 a.C., ma il santuario buddista di Butkara non esisteva ancora. Venne fondato dal re indiano Ashoka nel III secolo a.C. e sopravvisse fino al Medioevo. Un millennio di storia oggi indagato da un team internazionale di studiosi guidato dall’archeologa Elisa Iori, docente dell’Università di Erfurt in Germania e vicedirettrice della missione italiana in Pakistan attiva dal 1955 e attualmente diretta dal professor Luca Olivieri dell’Università Ca’ Foscari di Venezia.

Il centro cultuale di Butkara si trova nello Swat, distretto della provincia di Khyber Pakhtunkhwa, nota anche come Gandhara, nel nord pakistano, conosciuto per la sua straordinaria bellezza naturale, ma anche per essere finito sotto il dominio dei fondamentalisti islamici nel 2009. Questa remota regione, un tempo regno autonomo e ora annessa al Pakistan, sta cercando di risalire la china anche attraverso il turismo, dopo le faticose vicende politiche e le tragedie naturali, come terremoti e alluvioni che l’hanno funestata.

Nel sito di Butkara, il turismo archeologico si fonde con quello religioso in una sorta di unicum culturale senza tempo. A parlarne è la professoressa Iori, a capo di una spedizione che contempla una variegata presenza di specialisti e ricercatori che operano sul campo e collaborano tra loro. Da Nasir Mehmood direttore dello Swat Museum a Abid Ali dell’Università di Peshawar, Omar Coloru dell’Università di Bari, Moizza Elahi dell’Università di Toronto, Mubariz Ahmed Rabbani dell’Università di Reading, Subhani Gul del Jahanzeb College e Lubna Sirajud Din dell’Università di Hazara.

Professoressa Iori, perché scavare a Butkara dopo sessant’anni?

Lo scavo principale della missione italiana dell’Ismeo, l’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente, attiva in Pakistan dal 1955 e dal 2021 associata all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è a Barikot. Quest’anno abbiamo deciso di spostarci anche a Butkara, sempre nella stessa valle, cantiere aperto nel 1956 dal primo direttore della missione Domenico Faccenna che ha indagato tutto il santuario, poi anche pubblicato. Si tratta di una delle più antiche evidenze della diffusione del buddismo in quest’area e in India in generale, perché datato alla fine del III secolo a.C. Oggi operiamo nella stessa zona, però ponendoci domande diverse.

Quali?

Quelle che prendono in considerazione l’intero quadro storico-geografico.

Cioè?

I monumenti buddisti a Butkara, così come il complesso di Dharmarajika a Taxila e il tempio absidale dentro la città di Barikot, sono antichissimi. E Butkara ha una cronologia assai lunga, fu famosa fino all’epoca medievale, abbiamo testi con le descrizioni dei pellegrini cinesi e tibetani datati al mille dopo Cristo. A Butkara sorgeva il santuario di una città che era l’antica capitale dello Swat, menzionata anche dalle fonti di Alessandro Magno. Ovviamente all’epoca di Alessandro il tempio buddista ancora non c’era, venne costruito un secolo dopo, però la sua presenza indica l’importanza della città di Butkara che continua oggi ad attirare persone da tutti i Paesi buddisti. Pensi che ad aprile abbiamo scavato circondati dai turisti.

Si tratta di turismo archeologico?

Non solo. Esistono due tipi di turismo, quello archeologico e quello religioso. Butkara è sito archeologico, meta di pakistani ed europei, ma anche tappa di un viaggio sacro dei pellegrini buddisti tibetani, cinesi o del Sud-est asiatico. Qui praticano la circumambulazione. Sintetizzando, il monumento buddista è costituito da un tumulo di terra, lo stupa, dove sono depositate le reliquie del Budda. Il rituale più semplice consiste nel girarci intorno, nulla di diverso dai cristiani che vanno in chiesa per pregare e accendere un cero.

Un monumento archeologico che continua a essere monumento spirituale

Esatto, pensi che a Barikot ci dovemmo fermare nello scavo perché alcuni pellegrini chiesero di poter compiere il loro rito.

Ritornando alle domande che oggi vi siete posti per riaprire lo scavo di Faccenna nella metà del secolo scorso, in che senso sono diverse?

Oggi puntiamo ai dintorni di questo santuario. Perché intendiamo perseguire due obiettivi: individuare il monastero buddista che non è mai stato identificato e capire meglio cosa avveniva in prossimità del tempio stesso. In questa prima campagna, che pensiamo di riprendere in autunno, abbiamo messo in luce quella che sembra essere la via di accesso al santuario dalla città. Una strada principale con ingresso monumentale e fiancheggiata da ambienti che si presentano sia come una sorta di botteghe sia come locali di produzione quasi industriale di cibo, oltre che di conservazione. Ovviamente vanno ancora studiati i materiali, ma la presenza di tali locali con addirittura cinque forni fa pensare ad un’area produttiva legata a chi usufruiva del santuario, ai pellegrini e non ai monaci del monastero. A Barikot, ad esempio, abbiamo trovato le cucine interne alle case, ma mai nulla di simile.

Quindi anche nell’antichità c’era parecchio afflusso turistico a Butkara?

Sì, un posto assai frequentato per quasi un millennio, lo sappiamo già dalle fonti, ora dal punto di vista archeologico vogliamo capire come era strutturato il santuario.

Lei ha parlato anche di conservazione del cibo destinato ai pellegrini

Accanto all’area dei forni abbiamo trovato, in questa serie di stanzette di diversa funzione, contenitori in ceramica con tanto di coperchio e pure il mestolo in ferro ancora poggiato, che erano inseriti in buche quasi sigillate e riempite con ghiaia che faceva da isolante. Fino a quarant’anni fa era una pratica ancora usata nella zona, come ci è stato raccontato dagli stessi operai del posto che hanno lavorato allo scavo. “Anche noi a casa facevamo in questo modo, perché non avevamo il frigorifero” ci hanno detto. Quindi è un antico sistema per mantenere il fresco o forse anche il caldo, nel caso di zuppe. Le analisi stabiliranno cosa c’era dentro questi contenitori, ma si presume siano per l’appunto correlati ai pellegrini, non ai monaci.

E del monastero sono spuntate tracce?

Sarà lo scopo della prossima campagna autunnale. Stiamo studiando la topografia, abbiamo già un’idea della localizzazione.

Avete rinvenuto altri reperti?

Tante figurine di terracotta riferibili ad un ambito rituale, databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., cioè più antico rispetto alle aree di produzione. Inoltre, nella stanza con le strutture per preservare il cibo abbiamo recuperato un interessante tesoretto di sette monete di epoca indo-greca o del I secolo a.C. in un contesto più tardo del III-IV secolo d.C. Sono state rivenute tutte insieme, attaccate l’una all’altra, come dentro un sacchetto di materiale organico che non si è conservato. Alcune potevano ancora essere utilizzate come mezzo di scambio perché di un certo valore economico. Tra queste monete due abbastanza rare sono di Gondophares, il re indo-parto protagonista degli apocrifi Atti di Tommaso, figura storica che è chiara dimostrazione dei contatti tra Mediterraneo e India e che alcuni studiosi collegano alla figura del re magio Gaspare.

A proposito di Mediterraneo, Alessandro Magno quindi non vide il santuario di Butkara, costruito successivamente, ma conobbe la città dove sorgeva il tempio?

Il Macedone nel suo viaggio per la conquista dell’India, attraverso l’Iran e l’Afghanistan, passa proprio in queste zone del nord del Pakistan e i suoi storici Curzio Rufo e Arriano citano una serie di città, fornendo anche un po’ di informazioni. Tra queste città ci sono Barikot, menzionata con il nome antico di Bazira Beira, e l’attuale Mingora chiamata Massaga e presentata come la capitale del regno indipendente degli Assaceni. Massaga, importante già prima della costruzione del santuario, viene conquistata da Alessandro ed è stata identificata con Mingora, proprio dove sorge il sito sacro di Butkara, sulla base di considerazioni archeologiche, avanzate da me, dal direttore della missione Luca Olivieri e dal nostro storico Omar Coloru.

Molti pensano, invece, che l’archeologia serva a confermare le fonti scritte, tipo caccia al tesoro seguendo le mappe

Non è questo il compito dell’archeologia. Il dato archeologico non deve confermare le fonti scritte, ma è da mettere in relazione con quello che ci dicono le fonti, perché spesso i testi, pur restando linee guida fondamentali nella nostra ricerca, raccontano storie fantasiose che non hanno riscontro nella realtà.

Il sito di Butkara si trova in un distretto di una provincia del nord del Pakistan, lo Swat. Dal dominio di Alessandro all’impero britannico, oggi com’è la situazione politica in Pakistan?

Occorre fare una precisazione basilare, legata in qualche modo al fatto che Alessandro non ebbe vita facile nel conquistare lo Swat: i britannici hanno dominato il Pakistan, ma non sono mai riusciti ad impadronirsi dello Swat.

Popolo di difficile capitolazione?

È un’area di montagna, la via principale di comunicazione corre lungo il fiume Kabul, a nord c’è tutta questa parte che provvedeva al rifornimento alimentare delle città carovaniere del sud. Alessandro si rende conto dell’importanza della regione e vi si reca di persona poiché sa che gli abitanti sono particolarmente agguerriti e di fatto qui tutti gli assedi descritti durano un po’ e molti dei luogotenenti che il Macedone lascia a presidiare vengono assassinati quasi subito.

Attualmente che aria tira?

Ho iniziato a lavorare in Swat nel 2015 con il dottorato, cioè nel periodo in cui la fase dei talebani era finita, anche se il Paese era ancora sotto controllo militare, quindi per arrivarci occorreva doppio visto e scorta ventiquattro ore su ventiquattro. Dopo un paio d’anni questo stato d’emergenza è stato superato, oggi lo Swat è pressoché tranquillo. Lo conferma la presenza di turisti. Gli abitanti hanno capito che il turismo può diventare una grande risorsa.

Esiste ancora il pericolo terrorismo?

Il rischio di instabilità politica è dietro l’angolo, ma io stessa sono stata testimone di un cambiamento positivo nel corso degli ultimi anni. Ora non c’è alcun problema di sicurezza né di collaborazione con i colleghi pakistani. Siamo sempre ben accolti e supportati. Ma lo Swat deve affrontare altre difficoltà.

Quali?

Ha dovuto fare i conti con i terremoti che l’hanno devastato, quello del Kashmir nel 2005 ha provocato più di ottantamila morti in Pakistan, e con una serie di alluvioni, come quelle tragiche del 2010 che ha causato circa duemila vittime in Swat e del 2022 che ha distrutto oltre cinquanta villaggi. Per non parlare dell’esodo di circa due milioni di persone dalla valle dello Swat, il più grande nella storia recente del Sud asiatico, quando il distretto cade sotto il dominio dell’emirato talebano tra il 2009 e il 2010. E non solo.

Cosa ancora?

La perdita del patrimonio culturale a causa di un abuso edilizio incontrollato dovuto ad uno sviluppo improvviso, un po’ come è successo in Italia negli anni Sessanta. Dal 2010 lo Swat è stato dichiarato no tax area per poter essere ripopolato, ma il boom economico ha devastato il paesaggio.

E l’archeologia come può aiutare, se può?

Il Dipartimento di archeologia dello Swat sta investendo parecchio nella conservazione e nella valorizzazione, puntando soprattutto sull’educazione della comunità locale. Se all’inizio gli archeologi italiani erano gli unici stranieri nello Swat, la zona si è gradatamente aperta verso l’esterno e in questo periodo è molto praticata, nonostante i persistenti pregiudizi, a partire dagli stessi pakistani, riguardo il fondamentalismo islamico.

In conclusione, dopo oltre mezzo secolo riprendono le indagini a Butkara. Quanto ha contato e quanto conta il lavoro degli archeologi italiani?

Quella italiana in Pakistan è stata la prima missione straniera a lavorare in Swat e all’epoca, nel 1955, regnava il Wali, prima dell’annessione al Pakistan nel 1969. Ne è trascorsa di storia anche moderna. Ma la vera peculiarità della missione è stata la continuità di lavoro sul campo, tranne purtroppo durante le interruzioni causate dalla guerra. Un lavorare costante e insieme che non ha eguali. I contatti non si sono mai interrotti e questa è stata la grande forza di un network di collaborazione che ha resistito nel tempo e continua ancora dopo sessant’anni a dare i suoi frutti.

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