Antonio Scurati: “Il populismo di Mussolini lo vediamo anche nei leader di oggi, a destra e sinistra”
Chissà come sarebbe cambiata la Storia dell'Italia e dell'Europa se lo storico dell'Arte Ranuccio Bianchi Bandinelli avesse ucciso Hitler e/o Mussolini quando gli fu chiesto di accompagnarli in giro per i Musei romani. È proprio da questo mancato turning point della Storia che parte Antonio Scurati in "M. Gli ultimi giorni dell'Europa" (Bompiani) – che diventerà anche una serie, con Luca Marinelli nei panni di Mussolini – per raccontare il triennio 1938-40, quello che porterà l'Italia alle leggi razziali e a entrare in guerra al fianco della Germania Nazista. Lo scrittore fa un salto di qualche anno rispetto alla fine del precedente, perché la voglia è quella di approfondire il rapporto tra Mussolini e Hitler e lo fa mantenendo la forma sperimentata precedentemente, con gli strumenti del romanzo che si intersecano a quelli dello storico, con le fonti citate alla fine di ciascun capitolo raccontato, di volta in volta, dal punto di vista di uno dei protagonisti. Scurati seleziona alcuni personaggi, chi più famoso, chi meno, ognuno dei quali serve a tratteggiare un pezzo di quel puzzle che era l'Italia di quegli anni, raccontando come si arrivò all'infamia delle leggi razziali e alla guerra, mostrando il capovolgimento di ruoli tra Mussolini e Hitler, le idiosincrasie di Ciano, il coraggio di chi, ebreo, cercò di opporsi, a modo proprio, alle leggi. E quello che emerge da questo racconto è la scarnificazione del mito di Mussolini e dei gerarchi fascisti che sono rappresentati, sì, vestiti dei loro ruoli che inficiano la Storia del nostro Paese ma soprattutto come uomini pieni di vizi, difetti, tic, pregiudizi in un quadro globale da cui emerge come i grandi sliding doors della Storia talvolta avvengano senza quell'aura mitica ma, come nel caso specifico, quasi controvoglia, solo perché si è vittime delle valanghe provocate dalla superbia e dall'incapacità.
Come mai ha scelto di lasciare un vuoto narrativo temporale di 6 anni tra il secondo e il terzo capitolo di questa saga?
Me lo chiedeva con un certo sgomento anche il regista della serie tv, John Right: "Io come faccio a raccontare quei anni se non ci hai scritto un libro?" mi disse. Diciamo che ci sono due motivi: il primo è che un romanziere, a differenza di uno storico, opera delle scelte di prelievo sulla enorme massa dei fatti storici che andrebbero ricostruiti e l'ellissi temporale fa parte di queste scelte, sei tu a decidere dove dare un taglio. Nel secondo volume ho ritenuto di avere, a modo mio, raccontato già gli anni centrali del regime, quelli del consolidarsi della dittatura personale di Mussolini, dello sclerotizzarsi della spinta rivoluzionaria del fascismo e continuare sarebbe stato come ripetersi. Poi c'è una ragione molto più terra terra, che ha a che fare con i limiti dell'umano, e cioè che io sono uno solo a fare tutto ciò e oltre un certo limite non ce la faccio.
Cosa è cambiato – se è cambiato qualcosa – in questo terzo romanzo nel modo di scriverlo e pensarlo rispetto al primo, quando ancora non sapeva della portata che avrebbe avuto?
È cambiato innanzitutto il fatto che non devo più aprirmi una strada alla ricerca di una nuova forma letteraria, di un rinnovamento del genere storico a colpi di machete nella boscaglia, in cerca di una strada nuova, come avevo dovuto fare col primo. Quello era stato uno sforzo ulteriore, enorme, qui la strada è già tracciata, devo solo percorrerla. Scrivendo questo, però, ho provato un po' quella vertigine che provai scrivendo il primo volume, ovvero quella di rimanere innanzitutto io, sconcertato dalla scoperta di quanto sciagurata sia stata la decisione di Mussolini. Perché è questo che raccontiamo ne "Gli ultimi giorni dell'Europa", l'associare il destino dell'Italia fascista a quella della Germania nazista, e fino a che punto questa decisione fosse per criminale e assurda. Mi son detto: devi cercare di restituire la genesi folle di questa tragedia nazionale.
Nel suo libro tratteggia i tic, le debolezze, le paranoie, di questi personaggi: come è stato cerarli e descriverli?
È stato sconcertante ma anche elettrizzante per il romanziere. Con questo progetto rifiuto quella idea del romanzo come qualcosa che sta ai margini, di minimale, e mi metto a raccontare la parte centrale della scena storica. Però resti sconcertato quando ti accorgi che questa decisione fatale e fatidica dell'alleanza col nazismo e di muovere guerra al mondo – perché di quello si trattava -, è stata in buona parte generata da una somma di complessi psicologici, di invidie, di rivalità, di pregiudizi e stereotipi. Insomma, quando ti accorgi che una decisione politica di questa portata storica, con conseguenze che si stendono ancora sulla nostra vita oggi, è stata prodotta dalla pochezza degli uomini, dalla loro meschinità, dai loro complessi psicologi; lì hai un brivido, ti dici che il romanziere ha davvero un compito da svolgere, che si accosta a quello dello storico, deve raccontare questo lato qui, ad altezza d'uomo. E io mi sono sforzato di farlo.
È questa è la cosa più sconvolgente che ha imparato dalla scrittura di questi tre libri?
Impari una cosa che noi diamo tutti quasi per scontata, ma che quando poi cerchi di approfondire ti fa tremare le vene ai polsi: che anche la Storia, la grande Storia, quella che poi si ripercuote sulle vite di tutti per generazioni, spesso passa attraverso la pochezza degli uomini, raramente attraverso la loro grandezza. Io comincio a raccontare il Mussolini di M., il primo volume, come un uomo vuoto, un uomo che non ha idee, non ha princìpi, non ha valori, non ha fedeltà, certo, ha straordinari talenti, niente affatto uno stupido, ma soprattutto come un uomo la cui forza travolgente, nella sua ascesa al potere, si basa proprio sulla supremazia tattica del vuoto, sul fatto di non avere niente dentro di sé e quindi di riempirsi degli umori della gente che lui capitalizza e sfrutta con grande cinismo per raggiungere i propri obiettivi, che poi sono quelli, fondamentalmente, della conquista del potere. Ecco, scopri questo, la cecità degli uomini riguardo a loro stessi, il fatto che anche questi uomini storici spesso non capivano che cosa stesse accadendo e che cosa loro stessi stessero facendo.
E come si declina in questo libro?
Questo terzo volume, che racconta del rapporto tra Hitler e Mussolini, ne è un emblema: Mussolini capisce alcune cose di Hitler, ne vede anche il volto demoniaco ma si illude di poterlo governare, manipolare, come se Hitler fosse un ragazzotto ingenuo che la sua superiore abilità di politico manovratore può controllare. Pensa che abbaglio grandioso! E intanto la volontà di potenza distruttrice del nazismo lo travolge senza pietà. E quindi gli uomini fanno la Storia ma che non sempre capiscono cosa stanno facendo.
Qual è stato il personaggio che l'ha maggiormente sorpreso, quello che meno si confaceva alla sua idea iniziale? La mia idea è che Ciano possa essere uno di questi.
Per un romanziere Ciano è un personaggio molto stimolante, perché è una somma di tutti i vizi del carattere nazionale, ha tutti i vizi che noi attribuiamo abitualmente agli italiani: è vanitoso, guascone, approssimativo, narciso, donnaiolo, gaudente. Vizi che ha anche Mussolini, solo che Ciano non ha le sue virtù e i suoi talenti che pure erano notevoli, ha solo i vizi, quindi è la perfetta spalla di questo Mussolini che scivola verso l'abisso. Devo dire che in Ciano non c'è nessuna sorpresa, è abbastanza conforme all'idea che si ha di lui, ci sono altri personaggi minori invece che riservano delle sorprese e sono dei personaggi che si affacciano sulla scena a volte solo per alzare la testa, giusto per il tempo che gli venga tagliata.
Tipo?
Penso a questa figura tragica di questo Formigini, un editore, straordinario uomo di cultura, intellettuale, pioniere che per primo dà una dignità anche filosofica, al comico fondando una collana di libri comici, in un'epoca in cui il comico era considerato di serie B. Poi è ebreo, crede nel fascismo fino al momento delle leggi razziali, a quel punto, però, ha un gesto di tragico orgoglio e dignità: sale in cima a una delle torri medievali della sua città e con un memorabile biglietto di addio si butta giù per suggellare con il proprio sangue e il proprio il corpo schiacciato al suolo questa infamia delle leggi razziali.
In un'intervista al Corriere ha parlato di una sua idiosincrasia verso la comicità, dell’impossibilità di gettare tutto in burla. Eppure nel suo libro il grottesco è sempre dietro l’angolo…
Questa è stata una delle maggiori difficoltà e anche delle mie maggiori sfide. Io penso che il più grande motivo di equivoco riguardo al fascismo sia stato da sempre quello di ritenere Mussolini un uomo ridicolo, un personaggio buffo e il fascismo qualcosa che era contrassegnato dalla ridicolaggine e dal comico. E questo è uno dei fattori che ha contribuito a evitare agli italiani di fare veramente i conti fino in fondo con il fascismo, ovvero fare i conti col fatto di essere stati fascisti. Io volevo evitare questo pericolo, volevo restituire il fascismo alla sua dimensione di grande tragedia politica del nostro Paese, quindi mi sono sforzato fino all'ultimo di restituire Mussolini alla sua natura di uomo di straordinaria intelligenza e intuito politico, di profondi vizi morali e di personaggio tragico, niente affatto comico. Questo, fra l'altro, è un tema che adesso ci sfida nell'adattamento alla serie e certo non è facile, perché ci sono delle situazioni che di per sé virano verso il grottesco ma non bisogna mai dimenticare la nota tragica. È lecito parlare del fascismo e di Mussolini, è lecito parlare di tragicommedia ma mai solo di commedia. Io penso che la commedia sia il genio del popolo italico, ma penso anche che quella del comico sia un po' una condanna per noi italiani, una condanna perpetua alla commedia e di incapacità di fronteggiare le dimensioni tragiche e serie dell'esistenza collettiva.
Che effetto le ha fatto la coincidenza del Centenario della Marcia su Roma con questa nuova fase politica italiana?
Fa l'effetto di una una grande occasione perduta: il centenario della marcia su Roma poteva essere l'occasione per gli italiani di fare veramente fino in fondo i conti con il fascismo che, ripeto, secondo me significa fare i conti con il fatto di essere stati fascisti. Un'assunzione di responsabilità e dunque anche di colpa che è sempre stata evitata dal grosso del popolo italiano. Questa dimenticanza, questa mancanza di memoria elaborata a livello di coscienza nazionale, ovviamente contribuisce in parte anche all'esito delle elezioni politiche, perché consente ad alcuni dirigenti politici che hanno manifestato e manifestano apertamente nostalgia per il fascismo di governare il Paese, che è una cosa che una nazione che avesse memoria di sé non consentirebbe. Ma al di là di questo, io non ho mai pensato che la conquista del potere politico attraverso elezioni democratiche da parte dei partiti di destra potesse rappresentare una minaccia per la democrazia, quindi che questa anniversario potesse in qualche modo significare il ritorno del fascismo nella sua forma storica.
Ma?
Credo che chi cede a questa suggestione guarda nella direzione sbagliata e cessa di guardare nella direzione giusta, ai veri pericoli per la democrazia, che ci sono sempre e non solo adesso, e che non dipendono dalla possibilità di un ritorno del fascismo, delle camicie nere, ma provengono da un fenomeno che è in corso già da molti anni ed è quello del progressivo dilagare dei populismi sovranisti che sono, dal mio punto di vista, una minaccia non alla sopravvivenza della democrazia, ma alla qualità della vita democratica. Movimenti e leader populisti che ereditano alcune caratteristiche di Benito Mussolini e non del Mussolini fascista, fondatore e inventore del fascismo, ma del Mussolini che io leggo come il primo leader populista della storia, l'archetipo del populismo. E se ti metti su quel piano lì, allora vedi molte somiglianze, ma è un discorso che viene equivocato, spesso anche in malafede, perché sembra appunto riproporre l'equazione nuove destre e fascismo storico, ma quella è un'equazione sbagliata, dozzinale. Il discorso è che Mussolini fu anche l'inventore del populismo. E alcuni tratti caratteristici di quel Mussolini ritornano oggi non solo nei leader della destra italiana che ha radici nel neofascismo della nostra storia recente, ma anche in leader che nominalmente appartengono alla sinistra, o spagnoli o tedeschi o francesi o nord americani che nulla hanno a che fare con la storia del fascismo italiano.
Qual è il ruolo della letteratura in tutto questo?
Non parliamo di letteratura tout court, parliamo del romanzo. Io ho una grande fiducia nella forma romanzo, in quanto non solo è il genere letterario da molto tempo più popolare al mondo, ma è anche il genere più democratico. Io ho ritenuto importante raccontare il fascismo attraverso un romanzo, proprio perché il romanzo – che non sta in competizione con la conoscenza storica o scientifica, ma anzi in collaborazione – è una forma di conoscenza, ma che per sua natura è profondamente democratica. Cioè il romanzo si rivolge a tutti i lettori, al più alto numero di lettori possibili, senza chiedere titolo di studio in ingresso, carta d'identità, dove sei nato, quanti anni hai, di che sesso sei, ma dice a tutti: Venite, entrate nel regno della conoscenza e potrete grazie a me, grazie agli strumenti che io vi forniscono, alla mia capacità di appassionarvi e coinvolgervi, immergervi, sapere che cosa è accaduto cent'anni fa, come se voi lo steste vivendo e chiedendovi che cosa avreste fatto voi al loro posto. Ecco, io in questo credo, credo nel romanzo e credo che insomma anche questi miei romanzi abbiano contribuito a far conoscere a moltissimi italiani e non solo, che cosa sia stato il fascismo a fare i conti con esso. Non abbastanza italiani però molti.
Avrebbe mai immaginato che Luca Marinelli potesse interpretare nella serie il suo Mussolini?
In effetti era difficile immaginarlo data la scarsissima somiglianza fisica, ma sono stato contento quando mi hanno detto che sarebbe stato lui perché è un attore che ho avuto modo di apprezzare anche per le scelte fatte. Poi l'ho visto truccato ed è impressionante anche come si raggiunga una somiglianza fisica, soprattutto sul piano di quel celebre magnetismo dello sguardo di Mussolini, sono molto contento che sia lui a interpretarlo.