Antonio Scurati: “Il fascismo rivive nei populismi, non possiamo dare per scontata la democrazia”
"I movimenti, i partiti e soprattutto i leader politici che oggi sfidano la democrazia nella forma che noi abbiamo conosciuto fino a ora (…) non discendono dal Mussolini fascista (…) ma dal Mussolini populista". È questa la tesi – per usare le sue parole precise – che Antonio Scurati spiega nel suo pamphlet "Fascismo e populismo. Mussolini oggi", in cui lo scrittore, autore della saga sul dittatore fascista "M.", fa un excursus per spiegare perché ha ancora senso parlare di fascismo. Non quello dei manganelli, ma quello che prende a picconate le basi della democrazia liberale che, negli anni, abbiamo cominciato a dare per scontata, ma che è frutto di anni e anni di combattimenti. Da anni Scurati studia il ventennio fascista, soprattutto da quando si rese conto che non esisteva un libro che ritraeva Mussolini come avrebbe fatto lui stesso in questi anni. Ma questo suo esporsi, come intellettuale, oltre a permettergli di parlare a tantissime persone, lo ha costretto a pagare un prezzo non indifferente, quello della paura e delle minacce: più volte Scurati spiega di non voler passare da vittima, benché resti il fatto che dopo gli attacchi da destra e in particolare di una prima pagina di un quotidiano nazionale ha cominciato a ricevere minacce. Ne abbiamo aprlato con lui.
Partiamo in maniera antifrastica: Scurati, ancora a parlare di fascismo?
Sì, di solito questo me lo rimproverano i giornalisti di estrema destra. In questo libricino che ho pubblicato, parliamo di fascismo per parlare di populismo e non viceversa: dopo aver studiato e raccontato per anni – e continuo a farlo – Mussolini e il fascismo storico, mi è parso di capire una cosa, anzi, moltissimi lettori l'hanno capita prima di me e me l'hanno restituita, e cioè che ci siano delle similitudini molto forti tra il fascismo storico, quello italiano degli anni Venti e la scena politico-sociale attuale. Spesso, però, si è guardato nella direzione sbagliata, cioè si sono cercate queste similitudini, questi echi, queste simmetrie, guardando verso la dimensione violenta del fascismo, che è una dimensione intoglibile perché il fascismo è violenza fin dal primo giorno della sua nascita e della sua fondazione fino all'ultimo e lungo l'intero arco della sua storia. La tesi secondo cui Mussolini sarebbe stato uno statista che sarebbe incappato in alcuni gravi errori verso la fine della sua parabola è del tutto infondata storicamente. Il fascismo è stato violenza sempre, la violenza gli è essenziale, insopprimibile, però se abbiamo atteso un suo ritorno guardando alla violenza, cioè al ritorno dello squadrismo, la soppressione violenta delle istituzioni democratiche, abbiamo guardato nella direzione sbagliata, come dico da anni. Mussolini è attualissimo e io me ne accorgo andando all'estero dove mi rendo conto dell'interesse che c'è per la sua figura, oggi molto più forte di quello che c'è per la figura di Hitler. È attualissimo non in quanto – e questa è la mia tesi – è stato il fondatore del fascismo, ma in quanto è stato anche il primo leader populista del secolo a venire. Mussolini è l'archetipo, la forma originaria di ogni successiva leadership populista.
Il professor Gentile ha detto: "Io dico che è ridicolo parlare di un ritorno del fascismo perché il fascismo dall'Italia non se ne è mai andato” e parla di “democrazia recitativa”. Che ne pensa?
Ovviamente per me Gentile è stato un riferimento e continua ad esserlo. Secondo me ci sono due dimensioni: una nostra, locale, nazionale e un'altra globale. Quella locale, che però è anche matriciale, perché poi l'Italia è stata per quanto riguarda il fascismo matrice, all'avanguardia del peggio, e continua a esserlo quale laboratorio di sperimentazione politica, secondo me del peggio, però talvolta anche del meglio; a livello locale abbiamo una storia repubblicana che è sempre funestata dall'ombra del fascismo che ha gettato la propria ombra in alcuni snodi cruciali e tragici della nostra storia del dopoguerra, nella forma del neofascismo stragista e terrorista, ma anche all'interno delle sue istituzioni, sedicenti democratiche, repubblicane. E questo dipende dal fatto che pensiamo a tutti i fascisti che sono rimasti – parliamo degli anni '50 e '60 – nella Magistratura, nelle forze di Polizia, nei servizi segreti etc. Questo dipende da tanti fattori politici, ma possiamo riassumerli nel fatto che l'Italia non abbia mai fatto i conti, fino in fondo, con il suo passato fascista, con questo evento che rimane così l'evento centrale della nostra Storia contemporanea. È per questo siamo ancora qui a parlare di fascismo, non per un nostro gusto antiquario, ma perché il ventennio fascista rimane elemento centrale della nostra storia contemporanea anche e soprattutto perché non ci abbiamo mai fatto i conti.
E questo cosa ha comportato?
Questo non fare i conti col fascismo ci porta, sul piano culturale, delle narrazioni, al paradosso per cui il ventennio fascista e la guerra che ne è conseguita è quasi sempre stato raccontato dal punto di vista degli antifascisti, delle vittime del fascismo, dei perseguitati. E questo è stato sacrosanto e necessario per la Fondazione, questo è il nostro mito fondativo, quello della nostra Repubblica, della nostra democrazia, ma questo ha avuto l'effetto paradossale di lasciare in ombra la questione fondamentale per fare i conti col passato, e cioè quella che ci costringe ad assumerci la responsabilità del fatto di essere stati fascisti. Noi italiani abbiamo inventato il fascismo, l'abbiamo diffuso nel mondo, siamo stati fascisti, non tutti, certo, ma la maggioranza: per convinzione, per convenienza e molti lo sono stati anche a livello di militanza politica nel dopoguerra, alcuni di quelli oggi governano il Paese, ma questo passato non è mai stato affrontato in un dibattito pubblico, in una presa di coscienza collettiva, in un'abiura. Pensiamo all'attuale presidente del Consiglio ha riconosciuto, giocoforza, che alcuni episodi, quelli più orribili del fascismo, sono stati un errore, ma non ha mai condannato il fascismo in quanto tale, perché appartiene al suo passato. E questo è un problema tipicamente italiano, che fa sì che noi si viva in una casa abitata dai fantasmi del passato.
E la dimensione globale?
Le elezioni argentine di questi giorni ce lo dimostrano: c'è un'eredità del populismo mussoliniano che ha a che fare con il nuovo andare a destra del mondo occidentale e che vige anche a prescindere dalla biografia delle personalità politiche o dal loro richiamarsi consapevolmente alla figura di Mussolini. L'attuale presidente argentino, come Trump, probabilmente sa poco del fascismo di Mussolini, ma sono populisti mussoliniani, anche se non lo sanno, a partire dal primo assunto del populismo mussoliniano: io in questo libro faccio una sorta di eptalogo, di sette regole, sette leggi del populismo, e la prima di queste è quella in base alla quale il leader afferma, in maniera del tutto illogica e controfattuale, contraria alla realtà dei fatti: "Io sono il popolo e per converso, il popolo sono io". Questo primo assunto è un assunto gravido di conseguenze nefaste per la democrazia.
Ovvero?
Porta con sé l'idea dell'identificazione quasi fisica del popolo con il leader, il discredito di tutte le classi dirigenti, di tutte le élite, siano esse tecnocratiche, i tecnocrati di Bruxelles o i banchieri della Banca centrale argentina che, detto così, potrebbe anche starci bene: "Siamo d'accordo, abbasso le élite", ma significa il discredito del sapere, delle competenze, delle conoscenze, dei portatori di di sapere eccetera e quindi un disastro sociale. E poi, la seconda conseguenza è il discredito dell'istituzione parlamentare: se il leader populista incarna in se stesso il popolo, a cosa serve questo Parlamento nella sua complessità, nella sua pluralità e nella sua litigiosità? Il Parlamento viene sistematicamente dipinto come un'istituzione pletorica, inutile, lenta, vecchia, corrotta, inetta, da mettere in liquidazione, diceva Mussolini.
In tempi in cui si parla di altri privilegi, lei parla del suo, ovvero quello di essere un ragazzo negli anni 90, che era agiata, sana, sicura e pensavate che ormai la democrazia fosse qualcosa di dato e sicuro. Pensi di esserti sbagliato, quindi, pur vivendo in una democrazia? Come è cambiata questa democrazia?
Io penso che ci siamo illusi, ne faccio un discorso generazionale: io appartengo a quella che un mio amico scrittore definisce la generazione degli ultimi ragazzi del secolo scorso, sia per motivi anagrafici, io sono del '69, sia perché appartengo all'ultima generazione che è stata educata, formata intellettualmente nei miti fondativi della Repubblica, nel mito resistenziale, con una cultura antifascista militante. E come ricordavi, nel nostro essere figli degli anni '80, nel senso di affacciarci all'età adulta in quel periodo, anche di riflusso, di disimpegno, di disinvestimento ideologico e simbolico, abbiamo dato per scontato la democrazia. Ci sembrava una cosa ovvia, quasi un dato di natura, anche se poi nella nostra retorica giovanile, nelle manifestazioni di piazza, inneggiavamo alla Resistenza, abbiamo dimenticato nel nostro vivere quotidiano che la democrazia era il frutto della lotta, spesso tragica, spesso mortale, dei nostri padri e dei nostri nonni. Siamo stati una generazione sostanzialmente impolitica in questo. Io credo che la crisi della rappresentanza politica sia stata dovuta anche al fatto che le menti migliori della mia generazione non hanno certo pensato di fare politica, come invece avevano pensato le generazioni precedenti e questa è stata sicuramente una enorme illusione, perché la breve storia della democrazia – e io per democrazia intendo la democrazia liberale -, non ne esiste un'altra secondo me, la democrazia autoritaria che era il paradigma degli attuali governanti fino a ieri è chiaramente una contraddizione in termini. La breve storia democrazia è storia della lotta per la democrazia, sempre e ancora oggi. Quando la democrazia liberale viene minacciata da esponenti politici che provengono da un'altra tradizione, da una tradizione che non ha mai condiviso i suoi valori e, nei fatti, da un suo impoverimento quotidiano, beh i sinceri democratici, siano essi di sinistra o di destra, o riprendono la lotta per la democrazia o questa è in pericolo. Ma non perché noi ci si debba aspettare che da domani gli squadristi bussino alla nostra porta con il manganello, quello non accadrà più, è in pericolo nella sua qualità liberale già oggi, quotidianamente, non dobbiamo aspettarcelo da un futuro prossimo, questo deterioramento è in atto nel presente.
La tua generazione è l'ultima che si è formata sui valori della Resistenza, ma le nuove generazioni si sono politicizzate grazie alle battaglie femministe e ambientali. Come si può far capire che quella lotta antifascista non è una lotta polverosa e che bisogna riattualizzare quel mito fondativo?
Su questo non ho la risposta in tasca, io temo che la nuova generazione non sia affatto politicizzata e forse per alcuni aspetti è anche un bene. Non lo è come non lo è stata la mia, i nostri erano dei residui, dei cascami delle delle lotte delle generazioni precedenti. L'ultimo vero, forte impegno politico della mia generazione è stato ucciso a Genova, in piazza Alimonda, quella è stata l'ultima grande chance di fare politica a livello collettivo, fra l'altro su tutte istanze giuste, giustissime, che poi il presente si è incaricato di verificare nella loro giustezza. Eppure quel giorno a Genova finì tragicamente l'ultimo impegno della mia generazione.
E la nuova?
Per quanto riguarda quella nuova, io vedo una situazione molto polarizzata, c'è un'ampia maggioranza che è del tutto disinteressata e avulsa rispetto a qualsiasi forma di comprensione politica del mondo, prima ancora che di attivismo e poi ci sono delle minoranze che invece fanno dell'attivismo una bandiera, che prima di dirti su cosa sono impegnati si presentano come attivisti. Per rispondere alla tua domanda, come fare? Basta indicare l'avversario, per non dire il nemico, delle istanze ambientaliste, delle istanze delle lotte per il riconoscimento dei diritti delle persone e fare questa prova: da quale tradizione politica proviene? Da una tradizione politica di destra post-fascista. È sempre così e quindi capisci che a quel punto si vede chiaramente che tutte quelle lotte, in testa quella ambientalista, che io credo dovrebbe essere la principale preoccupazione e la priorità nelle nuove lotte democratiche, si trovano sempre di fronte allo stesso avversario, lo stesso nemico e quell'avversario e quel nemico provengono da una tradizione politica post-fascista.
Ultimante si parla molto di società patriarcale che, ovviamente, non è nata col Fascismo, ma che la cultura fascista esaltava. C'è stata un'impennata dei difetti della società patriarcale in quei vent'anni?
Dici bene, l'impennata mi sembra una metafora adeguata, io racconto sempre questa cosa per dare l'idea di quale fosse la concezione fascista della donna, in particolare quella mussoliniana. Lui una volta, in una delle rarissime annotazioni che lasciò scritte negli anni Venti, scrisse di suo pugno: "Nessuna donna potrà mai dirsi soddisfatta dall'intimità con il sottoscritto". Il che, per la nostra sensibilità, sembra quasi una dichiarazione di impotenza. "Perché poco dopo averla goduta – aggiungeva Mussolini – vengo irresistibilmente attratto dall'immagine del mio cappello", cioè, dopo l'amplesso brutale, veloce, voleva mettersi il cappello e andarsene e questa cosa la dichiara con orgoglio virile, perché quella che a noi sembra una dichiarazione di impotenza – il maschio che gode da solo ma lascia insoddisfatta sistematicamente la donna – per loro era una manifestazione di orgoglio virile, per la mentalità maschilista e fascista dell'epoca la donna non aveva una sua sessualità, non le andava riconosciuta tutta una sfera dell'erotismo, del piacere. La virilità maschile consisteva nel prenderla, nel farla ricettacolo del proprio piacere nel più breve tempo possibile e nella forma più immediata e predatoria che si potesse immaginare. Mussolini però era un uomo del suo tempo, la società italiana, europea, era abbastanza in sintonia con questa visione. Il fascismo rappresenta un rafforzamento, un'impennata di orgogliosa rivendicazione di questa visione del maschile e certe sopravvivenze che io chiamerei quasi superstizioni, nel senso etimologico, di sopravvivenze di antiche credenze che poi non sono così tanto antiche, nella mentalità, nella cultura, nella sottocultura machista italiana, secondo me sono dovute anche al fatto che noi abbiamo avuto questa impennata di orgoglio virile malinteso. Se mi permetti, il tema è molto pericoloso e molto vasto e decisivo, io in questi giorni mi sono trattenuto come hanno fatto tutti dallo scrivere subito il proprio articolo sul femminicidio di Giulia Cecchettin, però io riguardo al Patriarcato sono abbastanza convinto che questi delitti, nello specifico l'ultimo, compiuto da un ventenne un poco più che ventenne vadano compresi scrivendoli non nella sopravvivenza massiccia della struttura patriarcale della società, ma vadano iscritti e attribuiti alla fase del crollo del patriarcato. Sono delitti che discendono dal patriarcato, ma dal suo crollo, dalle sue rovine, noi viviamo, forse per fortuna, in una fase di terremoto di questi antichi assetti patriarcali ed è tra queste rovine che si aggirano questi orribili assassini.
Per alcuni sei diventato il nemico: come vivi le offese personali e gli attacchi che ti sono arrivati e ti arrivano, ormai costantemente, da destra? E al contempo ti chiedo qual è l'importanza, oggi, per un intellettuale di esporsi?
Ma guarda, se io dicessi con spavalderia che lo vivo con sereno orgoglio, mentirei. A me questa cosa ha creato dei problemi personali, non mi piace parlarne, in Italia non ne parlo mai, me lo chiedono spesso all'estero e sono abbastanza agghiacciati da quello che devo raccontare, perché non mi piace passare per la vittima, ho studiato troppo a lungo quelle vere per atteggiarmi a vittima, però devo confessare che in questo periodo dello scorso anno, quando si era nel calore della campagna elettorale, avevo rilasciato alcune interviste alla grande stampa internazionale dove mi cercavano per esprimere il mio punto di vista di intellettuale, non di persona coinvolta a livello di conoscenza di pensiero, ma estranea dal punto di vista dell'attività politica, cosa che io non ho mai fatto. Ma bastò quello a mettermi nel mirino, in particolare un giornale di tiratura nazionale, Libero, fece una prima pagina mettendo la mia foto grande e titolando a caratteri cubitali con un insulto che faceva riferimento alla merda. Ecco, questo è un attacco violento e pericoloso per chi lo subisce. Pericoloso perché ti disegna un mirino attorno alla testa, dicendo: questo è il nemico ed è un nemico indegno. E in quanto nemico indegno è meritevole di essere colpito. Cent'anni fa lo si faceva con i manganelli, oggi in altre forme e da quel momento – senza entrare nei dettagli, perché appunto non mi piace passare per vittima – io e la mia famiglia abbiamo avuto dei problemi di sicurezza personale.
Qualcosa, insomma, che poi si è riversato sulla tua quotidianità…
Sì, questo significa che sono accadute delle cose che hanno fatto sì che da quel momento, la mattina, quando uscivo di casa, ho dovuto cominciare ad accompagnare mia figlia a scuola e guardare a destra e sinistra. Niente più di questo, ma vi assicuro che basta per cambiare la vita di una persona. E devo lamentare il fatto che da più di un anno l'ordine dei giornalisti di Milano, ovviamente da noi interpellato, non abbia detto né sì, né no a questo riguardo, non si è ancora pronunciato. Ecco, questo ti dà l'idea di come ci sia un clima di intimidazione, che comprime le libertà degli individui e delle istituzioni che li rappresentano. Ora, io come mi ci trovo? Mi ci trovo per una volontà di attivismo? Se tu mi chiedi: sei un attivista? No, non sono un attivista, sono uno scrittore, un intellettuale, uno studioso, che si è occupato di alcune cose, ha raccontato il fascismo e questo basta a far sì che io mi trovi in questa situazione. Mentre, è inutile nasconderselo, i più cercano istintivamente, naturalmente, comprensibilmente, delle vie di minor attrito, di metterci un po' al riparo da soli individualmente, dimenticando che da questo tipo di cose nessuno si salva da solo.