Dopo l'articolo di Antonio Moresco sui "baci, abbracci e pugnalate alle spalle" ricevuti al Premio Strega che avrebbero escluso dalla rosa dei finalisti il suo ultimo romanzo, "L'addio" (Giunti), vien da chiedersi senza mezzi termini su quale pianeta viva il mondo della letteratura italiana, su quale sia, al punto della notte in cui ci troviamo, il suo orizzonte rispetto alle grandi questioni e alle sfide che l'epoca in cui viviamo ci pone.
Il quadro è sconfortante. Al di là della questione specifica, cioè al di là del fatto che Moresco abbia prima accettato di partecipare al più famoso (e da sempre contestato) premio letterario e poi, una volta sconfitto, abbia scelto di gridare allo scandalo, resta inattesa una domanda di senso pratico in tutta questa faccenda: siamo sicuri che qualcuno, al di fuori degli immediati protagonisti, sia interessato a tutto ciò?
D'altro canto, considerata la progressiva e sempre più insistente marginalità della letteratura all'interno del mondo editoriale, del libro all'interno dei consumi culturali, dei consumi culturali all'interno dei consumi generali degli italiani, il quesito non mi pare peregrino. Sostengo ciò non per titillare una moda anti-intellettualistica tanto in voga nei nostri tempi, né rassegnandomi all'idea che le partite debbano essere truccate (quando e se effettivamente lo sono), ma proprio pensando al fatto che il mondo nel quale nascono, proliferano e muoiono questi scontri sembra ormai non esistere più. E da un pezzo.
Proprio la distanza siderale tra la società letteraria e l'ecosistema in cui vivono tutti gli altri – una "zona morta" in cui mi par si attestino le stesse recriminazioni di Moresco – oltre a quest'incapacità di comprendere i sentimenti, gli istinti positivi e brutali e primitivi che agitano il nostro mondo, le sue derive e le sue possibilità, mi sembra spieghi bene (anche se, probabilmente, solo in parte) la disaffezione dei lettori, l'appiattimento della letteratura, la crisi del mercato editoriale, il fatto che quella creatura vaga ed eventuale che chiamiamo pubblico guardi oggi agli scrittori come a un gruppo di alieni che preferisce restarsene al riparo dei moti nel proprio steccato, oppure al contrario, quando questi steccati vengono abbattuti (in genere, a causa del mezzo televisivo e delle sue propaggini cosmetiche), trasformandoli in idoli di massa, simil-rockstar da interrogare come oracoli su ogni questione dello scibile umano.
L'Italia è un paese ammalato di retoriche sempre in guerra tra loro. E quest'ennesima, stantia polemica letteraria, oltre a mostrare la mancanza di autopercezione di chi la promuove, mette in scena i titoli di coda di quel mondo, creando un deprimente disagio in chi questa guerra non si sente attrezzato a farla. Verrebbe da dire: povero quel paese in cui gli scrittori si sentono più ingenui dei premi letterari a cui partecipano.
In ultimo, proprio sul tema mi permetto di consigliare la visione di una serie televisiva, andata in onda in queste settimane su Sky, intitolata "Dov'è Mario?" di Corrado Guzzanti, manifestazione plastica in forma drammaturgica dello scontro (e poi della terribile, finale, funesta fusione) tra queste due retoriche belligeranti. Così come andrebbe certamente riscoperto, approfittando del fatto che da dopodomani Radio 3 ne manderà in onda la lettura nel programma "Ad alta voce", il volume "I miei premi" di Thomas Bernhard, ritratto insieme feroce e scanzonato che il grande scrittore austriaco dipinse del mondo dei premi letterari: «Tutto era repellente, ma più repellente di tutto trovavo me stesso» scrive a un certo punto il grande, eterno Bernhard.