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Antonio Latella in scena con “Il servitore di due padroni” (INTERVISTA ESCLUSIVA)

Arriva oggi al Teatro Bellini di Napoli il nuovo spettacolo di Antonio Latella, “Il servitore di due padroni” da Goldoni. Abbiamo contattato il regista in esclusiva nel suo ritiro siberiano dove sta lavorando al prossimo progetto.
A cura di Andrea Esposito
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Che ci fosse qualcuno che avrebbe gridato al sacrilegio era prevedibile prima ancora che lo spettacolo debuttasse a Cesena lo scorso novembre. Del resto siamo in Italia, e qui provare a rileggere la tradizione è affare assai delicato, tanto più se a farlo è un regista come Antonio Latella, uno, per intenderci, che non accarezza il gatto per il verso del pelo.

Lo abbiamo raggiunto telefonicamente nel suo ritiro siberiano di Novosibirsk dove, da poco più di un mese, sta preparando il suo prossimo spettacolo (“Peer Gynt” da Ibsen) con la compagnia di attori russi con cui l’anno scorso portò in scena la trilogia di Oreste, Elettra e Ifigenia. Latella ha raccontato in esclusiva per Fanpage.it i motivi che lo hanno spinto a confrontarsi con una riscrittura goldoniana, al netto di alcune polemiche che lo spettacolo ha suscitato in particolare a Venezia e Padova.

Come se non bastassero quasi vent’anni di onorato servizio, di premi e riconoscimenti nazionali e internazionali (il nostro ha appena ricevuto il secondo Ubu consecutivo, il quarto della carriera) di un’attività pedagogica preziosissima e instancabile, di recenti capolavori come “Un tram che si chiama desiderio” o “Francamente me ne infischio”, a metterlo al riparo da inutili e sterili polemiche. Ma tant’è.

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Il caso in questione, “Il servitore di due padroni”, è il terzo capitolo di una tetralogia sulla menzogna che il regista stabiese ha inaugurato lo scorso anno con “A. H.” incentrato sulla figura di Adolf Hitler e “Die Wohlgesinnten” dal caso letterario di Jonathan Littell.

Il testo goldoniano che Latella ha deciso di far riscrivere a Ken Ponzio è forse uno dei più emblematici del teatro italiano, basti ricordare che Giorgio Strehler ne realizzò moltissime versioni continuando a limarlo per tutta la vita. Ed è esattamente per questo che Latella ha deciso di lavorarvi, proprio per “confrontarsi con la tradizione del teatro italiano”, per provare, come ormai fa da diversi anni, a utilizzare il repertorio come un grande serbatoio per ridisegnare il perimetro del contemporaneo, sottraendo la tradizione alla sclerosi del tempo. Ma non solo, forse anche per rivitalizzare un dibattito che in Italia è arroccato fondamentalmente su due posizioni opposte: da un lato, il teatro borghese, fedele al testo, retorico e illustrativo; dall’altro, il cosiddetto “teatro di ricerca”, una sorta di frullato fisico e concettuale imperniato su quello che un critico tempo fa ha brillantemente definito “misticismo anemico”.

È evidente che Latella stando né di qua, né di là crea problemi, spiazza, anche se la stragrande maggioranza della critica lo sostiene con forza. Ma questo spiazzamento, questo spingere l’asticella sempre più in avanti, questa necessità febbrile di rovesciare dall’interno il teatro di regia in Latella non risponde affatto a una volontà iconoclasta o trasgressiva come alcuni vorrebbero far credere: chi lo pensa o non lo conosce, o non lo capisce.

Antonio Latella è il prototipo del regista del ventunesimo secolo, di colui che incorre nel teatro, quasi suo malgrado, e lo pratica “osandolo” non certo infiocchettando spettacoli che potrebbero mettere d’accordo tutti, se solo volesse. Ma a chi gioverebbe? La sua missione d’artista è piuttosto quella di spingere il teatro sulla soglia del contemporaneo, ibridandolo o scarnificandolo per giungere a un linguaggio che non appartiene a quella specifica arte come finora la si è intesa o a quel determinato periodo storico, ma entra sotto pelle, “urta”, mette in discussione se stessa e chi la guarda. Di questo se ne rende conto la critica che lo scrive ormai da anni, se ne rende conto il pubblico che lo segue, e se ne rendono conto soprattutto gli attori, che sempre più numerosi bussano alla sua porta per “farsi dirigere”, siano essi giovani talenti o figure carismatiche della scena.

Latella, in sostanza, ha ben chiaro che un’arte come il teatro, le cui fondamenta sono antiche come l'uomo, nel nuovo millennio non può più essere semplicemente rinnovata (nel senso di inserire al suo interno elementi di novitas) ma va radicalmente rifondata, ricercando al suo stesso interno, con una sorta di esorcismo, i codici e le forme attraverso cui esprimere il proprio tempo. Questa è una missione preziosissima a cui Latella non si sottrae semplicemente perché non può farlo.

E quindi ecco “Il servitore di due padroni” di Goldoni, riletto, riscritto, rivisto con occhi nuovi: quel testo, insieme ad altri di Goldoni, ha rappresentato a suo tempo il tentativo di fissare dei codici, superando il canovaccio, superando le maschere, andando oltre, esattamente come oggi fa Latella. Chi è Arlecchino? Si chiede il regista, ma la risposta, chi vorrà, potrà trovarla nello spettacolo. Non perdetelo.

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