Dallo scorso 8 febbraio è nelle librerie italiane La donna gelata di Annie Ernaux (L'orma editore), romanzo del 1981 dell'acclamata scrittrice francese che analizza in maniera profonda e impietosa la vita matrimoniale di una giovane coppia. Dopo quarant'anni i lettori italiani possono finalmente leggere questo libro, scoprendone una forza letteraria e politica ancora intatta. Ne abbiamo discusso con l'autrice de Il posto e de Gli anni.
Ne La donna gelata parla delle donne della sua infanzia come “donne da esterni”, non abituate a stare al chiuso e da sempre avvezze “a sgobbare”, donne forti, lavoratrici. Qual è stata la sua esperienza del mondo femminile prima del matrimonio?
È un’esperienza fatta di donne che non si sono mai lasciate dominare, «donne da esterni» come scrivevo, donne attive che si preoccupano delle faccende domestiche soltanto il minimo indispensabile, perché non hanno tempo da dedicare alla casa. In un ambiente contadino, soprattutto a quell’epoca, le abitazioni erano abbastanza spartane, spoglie, come immagino fossero anche in Italia a quei tempi. Fuori dagli appartamenti borghesi non c’erano tappeti da sbattere o soprammobili da spolverare tutti i giorni. Sono queste le donne che ricordo, donne che lavorano quanto gli uomini, e non tra le pareti domestiche, ma spesso nei campi, oppure in fabbrica: di conseguenza sono donne che hanno diritto di parola perché guadagnano del denaro, e questo è già un fattore molto importante. Durante la mia infanzia nella mia famiglia c’era soltanto una donna che aveva molti figli – nel libro parlo anche di lei. Di fatto, era la più sottomessa al volere del marito, perché non poteva lavorare, solo occuparsi dei bambini.
Leggendo il libro ho compreso (o almeno, lo spero) alcuni paradossi che da bambino non riuscivo a spiegarmi del rapporto tra i miei genitori (hanno tutti e due più o meno la sua età). In particolare, rispetto al tema delle libertà. È come se per le donne della sua generazione la libertà fosse qualcosa di faticoso e di scomodo. Mentre per gli uomini di ogni epoca la libertà presenta sempre meno svantaggi. Cosa ne pensa?
È davvero una grande questione, perché la libertà degli uomini della mia generazione – e credo il discorso sia ancora attuale ai giorni nostri – è un dato di fatto che non viene mai messo in discussione, ed è così fin dalla nascita. Pensando a un bambino si immagina abbia la possibilità di fare tutto. E quando dico “tutto” intendo sia la libertà di andare ovunque sia quella di scegliere il proprio percorso professionale. Per le donne invece – vale per le bambine cresciute in un contesto tradizionale ma ritengo sia così ancora oggi – questa libertà non è data una volta per tutte, non è scontata. Sappiamo benissimo che la libertà di andare dove si vuole è spesso condizionata da minacce di ogni tipo che, in effetti, nella maggior parte dei casi sono rappresentate dagli uomini. Ai miei tempi la libertà era qualcosa che dovevamo conquistare, e che in qualche modo non abbiamo mai raggiunto pienamente. Credo che a tutt’oggi debba ancora essere raggiunta. Certo, ci sono forti distinzioni a seconda del luogo in cui si vive. E nemmeno per gli uomini parliamo davvero di una libertà totale. Quello che conta però è che maschi e femmine non hanno ancora davanti a sé un futuro ugualmente libero.
Forse il punto è che la libertà delle donne è ancora percepita come una minaccia. È stato molto evidente, ad esempio, durante il movimento del metoo, del quale si è detto: «Adesso state proprio esagerando!». Che in parole povere significa mettere in discussione, senza dirlo apertamente, la libertà di denunciare che siamo state molestate e non vogliamo che accada di nuovo. La libertà delle donne è sempre stata un problema per la società. A partire dagli anni Settanta abbiamo scardinato alcuni dei meccanismi che opprimevano le donne. Ma quella rivoluzione non è ancora compiuta.
La donna gelata è stata scritta quarant’anni fa, quando immagino fosse molto più difficile affermare certe idee con una tale veemenza.
All’epoca (parliamo del 1981) sono stata molto contestata, e il libro criticato. Criticato perché si pensava fosse del tutto normale che una donna lavoratrice si sobbarcasse comunque tutte le faccende domestiche, la cura figli, la gestione della cucina. C’era la convinzione diffusa che a livello sociale l’emancipazione femminile fosse ormai completamente raggiunta, perché avevamo ottenuto il diritto alla contraccezione, quello all’aborto, e il partito socialista era alla guida del Paese. Al governo c’era anche un’importantissima esponente del movimento femminista: Gisèle Halimi. Così ci si illudeva che la questione femminile fosse risolta una volta per tutte. Durante una trasmissione televisiva, fui coinvolta in una discussione molto accesa su questo tema. Mi chiesero: «Ma così non si finisce per dimenticarsi dell’amore?». L’amore veniva sempre brandito come un’arma per sviare il discorso e negare che ci fossero disuguaglianze nella ripartizione dei compiti.
A sostenere certe idee, c'è il rischio di passare per madri degeneri.
Sì, sono stata subito accusata di essere una cattiva madre perché non vivevo la maternità come se fosse il mio unico obiettivo di realizzazione personale, se così si può dire.
Diversi anni fa in un’intervista ha dichiarato: “Non mi abituerò mai a una visione maschile del mondo”. Crede che nel frattempo la società si sia abituata ad avere una visione più femminile di se stessa?
Credo che stiamo attraversando un periodo di grandi progressi, di cambiamenti originati dalla volontà e dalle azioni delle donne. È inutile aspettarsi che gli uomini si convertano da soli a una visione del mondo diversa da quella che gli è stata trasmessa. C’è stata un’evoluzione in tal senso, ed è tuttora in atto, ma quella maschile resta una concezione del mondo in cui il privilegio gioca un ruolo fondamentale. Un privilegio garantito sempre da altri uomini. Si tratta di una visione interiorizzata, ovviamente, sulla quale si riflette poco e della quale si parla ancora più di rado. Ma gli uomini occupano quasi tutte le posizioni di potere, in politica, in campo artistico, letterario… Basti pensare che ci sono scrittrici e scrittori in egual numero, ma le donne ricevono molti meno riconoscimenti. Ed è difficile che i loro colleghi maschi lo ammettano o ne parlino. È una situazione pesante, e c’è ancora molta strada da fare. Ciò detto, il grado di consapevolezza delle donne è cresciuto enormemente, dal 2000 in poi, su questo non c’è dubbio. Abbiamo assistito, specie negli ultimi anni, a un aumento della loro influenza nel dibattito pubblico, per sostenere valori di uguaglianza e libertà.
Ho letto che successivamente alla pubblicazione de La donna gelata, negli anni Ottanta, ha chiesto a Gallimard di rimuovere dalla copertina di tutti i suoi libri qualsiasi riferimento a uno specifico genere letterario. Mi può dire cosa l’ha spinta a farlo?
Sì, è stata una mia decisione. Sulla copertina dei miei primi tre libri, compreso La donna gelata, una scritta recitava «romanzo». In seguito ho abbandonato l’io finzionale e ho fatto eliminare la dicitura «romanzo», perché sono definitivamente passata al mio io reale, autobiografico. Mi sono resa conto che i miei libri precedenti erano già al 95% autobiografici, fatta eccezione per dettagli legati ai nomi dei personaggi, o a eventi di minima importanza.
Si tratta di un modo per sottrarsi a ogni classificazione, o al contrario c’è un’etichetta specifica che utilizzerebbe per i suoi libri?
Ho rifiutato l’etichetta romanzo per scrupolo di autenticità, per non dover più indossare una maschera o adeguarmi ai canoni di un genere letterario che non era il mio. Preferisco non indirizzare a monte il lettore in una sola direzione attraverso l’etichetta del genere letterario, voglio che sia chi legge a decidere.
Dunque ha deciso di buttare giù la maschera con il lettore e dire apertamente che si trattava di lei ne Il posto.
Sì, il progetto di quel libro presupponeva che non ci fosse distanza tra personaggio e voce narrante: l’io de Il posto è davvero Annie Ernaux. E l’uomo di cui parlo è davvero mio padre. Non volevo che ci fosse alcun dubbio. Questa decisione ha cambiato radicalmente la mia scrittura, che ha perso quella quella forma di leggerezza ancora presente ne La donna gelata, dove ci sono dei passaggi ironici, in cui mi prendo in giro.
Se ne Il posto uno dei temi è il tradimento che l’ascesa sociale comporta, anche ne La donna gelata c’è l’idea di un tradimento, rappresentato dal matrimonio e dalla vita familiare. Un tradimento senza infedeli. Come se il peccato fosse presente nella nostra struttura sociale, ancor prima che nei suoi interpreti…
Lei parla di tradimento, e certo, ha ragione. Per quanto mi riguarda, non avrei mai pensato di tradire a quel modo le mie ambizioni, quelle che nutrivo prima del matrimonio: superare gli esami da insegnante, lavorare a scuola e scrivere. Avevo un programma preciso che si è rivelato del tutto irrealizzabile, fin da subito. Credo che molte donne della mia generazione abbiano sperimentato questo tradimento di se stesse, del quale però non sono state le vere artefici: sono le condizioni della vita, della famiglia che le hanno costrette ad abbandonare i propri sogni.
Insomma, o si tradisce se stessi o si tradiscono le proprie origini…
Nel mio caso sono avvenute entrambe le cose, perché si trattava di un matrimonio borghese, che sanciva il mio ingresso in un mondo borghese che non conoscevo e non capivo. Credo che ne La donna gelata si senta questa differenza di origine sociale, di habitus. Ed è in nome di una certa idea di cosa può o non può fare un uomo che mio marito si rifiutava, per esempio, di sbucciare le verdure. O che ironizzava: «No, ma scusa, mi ci vedi con il grembiule?». Nei primi anni di matrimonio, non provavo ancora un senso di colpa al riguardo. Poi, alla morte di mio padre, per me è cambiato tutto. So bene che la convivenza è impossibile senza scendere a compromessi, ma nel mio caso ero sempre e solo io a cedere terreno all’interno della coppia.
Perché lo accettava?
Perché si tende a rassegnarsi quando la discussione diventa troppo faticosa da portare avanti, quando si ha l’impressione di stare sempre lì a cavillare su tutto. Si teme di incarnare il triste stereotipo della donna petulante che non fa che lamentarsi, che accampare pretese. Che non si accontenta mai. Ne sentivo parlare spesso. A un certo punto de La donna gelata faccio questo paragone: si tratta dello stesso meccanismo oppressivo usato dai padroni quando dicono che gli operai non sono mai contenti di quello che gli viene dato. I dominati non sono mai contenti… È uno dei modi in cui si sancisce il rapporto di potere e si spinge l’altro alla rassegnazione. Può sembrare una forzatura, ma la vita delle donne è spesso costellata di situazioni in cui ci si rassegna, perché è estenuante dover sempre rivendicare i propri diritti. Ed è ancora più difficile in un rapporto il cui presupposto è l’amore. Quell’amore in nome del quale si dovrebbe accettare tutto. E invece come si manifesta più spesso il dominio dell’uomo sulla donna, quest’egemonia tanto diffusa e accettata a livello sociale? In maniera diluita, apparentemente innocua, in tutte quelle situazioni che si pensa afferiscano soltanto alla sfera privata, sentimentale, quando in realtà sono un problema sociale.
E spesso la situazione si ritorce contro chi evidenzia il problema, vero?
Esatto. Ma senza mai riconoscere a chi si lamenta, a chi protesta, la sua condizione di donna all’interno di una società iniqua. Come se il problema non fosse la società, ma tu in quanto individuo. O, al massimo, tuo marito, il tuo compagno, che sono sempre casi isolati, del tutto irrelati dal resto degli uomini. Troppo spesso ci si dimentica completamente del fatto che i rapporti tra uomini e donne sono sempre politici, e riguardano tutti noi.
Rilegge i suoi libri? Io non riesco a farlo. In generale gli scrittori con cui discuto affermano di non riuscirci per mancanza di tempo o pigrizia. Eppure io credo che abbia a che fare anche con un pizzico di senso di colpa. Se rileggessi, temo che scoprirei di essere stato ingiusto con qualcuno di molto importante nella mia vita. Che rapporto ha con i suoi libri passati?
No, neanche a me piace farlo. Mi sono sforzata un po’ più del solito proprio con La donna gelata, ma ne ho riletto solo i passaggi salienti. In più, sono sempre proiettata verso il libro che sto scrivendo, o che ho intenzione di scrivere. Jean-Paul Sartre descriveva i libri che aveva già scritto con la parola «pratico-inerte». Una volta che il libro è scritto, diventa un residuo inerte della scrittura. Se sono obbligata a rileggermi – per esempio in occasione di una nuova traduzione, o per rispondere a un’intervista come questa – nella stragrande maggioranza dei casi mi dico che non avrei potuto scrivere quel libro altrimenti, che quella è la verità; solo di rado mi dico che avrei qualcosa da aggiungere, o mi viene voglia di cambiare qualcosa. Però no, non mi capita mai di pensare di aver danneggiato qualcuno. Mi dico che sono eventi del passato, lontani, storia vecchia, anche quando sono passati solo un paio d’anni. Per quanto possa sembrare strano, dato che parlo tanto della memoria e della sua importanza, in realtà io vivo immersa nel presente e nel futuro. In definitiva non mi pento di nulla, né per quanto concerne la scrittura, né per quel che riguarda i contenuti o le persone che li hanno ispirati.
Il presidente Macron ha risposto alla sua lettera di qualche mese fa? Secondo lei è cambiato qualcosa in questi mesi di pandemia, rispetto alla considerazione di cui godono infermieri, insegnanti, postini, o verso coloro che svuotano la spazzatura o lavorano alle casse dei supermercati?
No, e in realtà non mi aspettavo che rispondesse. In un certo senso preferisco questa distanza, tra noi, tra i nostri ruoli. Per quel che riguarda la percezione del personale sanitario purtroppo non mi pare che sia cambiato granché. Ho come la sensazione che capiremo davvero la situazione che stiamo vivendo soltanto quando la pandemia sarà sotto controllo e potremo riprendere una vita normale. Non sarà la vita per come ce la ricordiamo, ovviamente, ma per il momento non ci sono indizi su come sarà. Anche gli insegnanti, che siano alle scuole materne o all’università, stanno affrontando quotidianamente difficoltà enormi. E chi lavora in ospedale, ovviamente. Ma non so fino a che punto il resto della popolazione ne sia consapevole. Eppure sono convinta che avremo bisogno di una resa dei conti, alla fine della pandemia. Bisognerà interrogarsi. E rendere il giusto merito a tutti quelli che hanno tenuto in piedi la nostra società in questi tempi difficili.