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Anna Karenina, la versione di Wright reinventa le immagini del romanzo con energia

Per la serie letteratura e cinema: l’adattamento di J.Wright propone una rappresentazione del romanzo di Tolstoj dal sapore modernista, che omaggia la capacità visiva della letteratura, nell’economia di una messinscena fantasiosa ma di estremo rigore.
A cura di Luca Marangolo
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Raccontando la genesi di Anna Karenina  Lev Tolstoj ci dice di essere rimasto ipnotizzato da un’immagine che gli ‘balenò' mentre era sul suo divano.

Count Tolstoy

L’immagine di cui parla è quella del braccio nudo di una donna immaginato di scorcio scivolare fuori da un abito da sera, durante una serata di gala. Dalla visione di questo dettaglio Tolstoj ha tratto il suo romanzo, uno dei più grandi romanzi realisti mai scritti. Quando si dice che Anna Karenina è uno dei più grandi romanzi realisti mai scritti si intende che, bene o male, ha fatto da modello a centinaia di altre opere realiste. Anzi, di più: ha inventato, o meglio contribuito ad inventare, perfezionandolo in modo cruciale, quello che noi oggi diamo per scontato, ovvero il realismo quotidiano, la rappresentazione di vicende della quotidianità rese drammaticamente sulla pagina scritta. La ragione per cui diamo per scontata la rappresentazione della realtà quotidiana è che da allora in poi prolifera ed è diventata tanto importante da essere alla base di tutto: i film, i libri, la tv.

Una delle maggiori particolarità di Anna Karenina, ad esempio, sta nel fatto di aver portato all’estremo la forma del romanzo basato sull’introspezione, il romanzo piscologico, in cui il vissuto dei personaggi si compenetra nella trama delle vicende e viceversa. La famosa scena delle corse, in cui i personaggi si scrutano a vicenda, raccontata da due punti di vista opposti nel corso dell’opera, è un esempio importante, in questo senso, della sovrapposizione fra mimesi (cioè  la rappresentazione, descrizione esteriore) e la diegesi (cioè la narrazione delle vicende a partire da un punto di vista).

Perché fare, dunque, l’adattamento di un’opera di Tolstoj così fondativa per il narrare di oggi? E’ un po’ la domanda che si sono posti tutti i recensori del nuovo film di Joe Wright con Keira Knightley. E non c’è dubbio che lo stesso Wright non è arrivato impreparato all’incontro, ma aveva una strategia.

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    Il modo migliore per raccontare quel che fa del nuovo film su Anna Karenina un piccolo capolavoro di coerenza, è proprio partire dall’immagine di cui parla Tolstoj. Anna Karenina è prima di tutto una grande galleria di immagini magnificenti, immagini che si susseguono entrando e uscendo dalle menti dei personaggi che lo vivono: Kostantin Levin, il candido personaggio che custodisce l’amore per l’angelo Kitty, l’algido funzionario Karenin, marito di Anna così incapace di vedere oltre il proprio piccolo orizzonte quotidiano, e poi Vronskij, sprezzante avventuriero dal sangue caldo, sottomesso alla volontà di sua madre. Sono tutti personaggi molto complessi, sì, ma sono in primo luogo delle complesse immagini: chi legge il libro è invaso dalla vita romanzesca che è come la memoria, richiama a se i colori luminosi delle stanze, i volti trasfigurati dall’immaginazione che scava nei ricordi di chi legge un libro, facendo riemergere un flusso di esperienze che prendono forma vigorosamente.

 È questo ciò che rende il nuovo adattamento di Wright degno di attenzione.  È vero, come è stato scritto da molti, che l’autore non vuole cadere nella trappola di rifare pedissequamente Tolstoj, ma ciò che in realtà l’autore evita è rifare il discorso-Tolstoj: ovvero la grande tradizione melodrammatica che da Greta Garbo  (e dal muto in su) sovrappone, indebitamente, due cose differenti: la grande invenzione narrativa e drammaturgica di Tolstoj del realismo psicologico ed emotivo (che è un dato formale) e la storia che Tolstoj ci narra (ciò che ambirebbe a mostrare un adattamento). Questa sovrapposizione deriva, in fin dei conti, proprio dal fatto che il realismo quotidiano (Auerbach lo chiama alltäglicher Realismus) è la base implicita di tutti questi prodotti culturali, che rinarrano la storia di Tolstoj ereditandone passivamente il codice. Alla base di questo film sembra essere la chiara intuizione che, non solo un film deve, ovviamente, raccontare con mezzi propri, ma soprattutto può restituirci per via visiva la Erlebnis, l’esperienza vissuta, figurale, dell’opera di Tolstoj, dell’atto di leggerla e che trova una coerenza puramente immaginativa, senza alcuna pretesa naturalistica o di ambientazione, proprio nella capacità del regista di comporre il racconto.

È per questo che la regia mescola espedienti brechtiani ad un enfasi in stile Broadway ricoprendo i set a vista di tappezzerie improbabili e luci teatrali che rendono l’opera, al di là di facili crinali metaforici (come il parallelo teatro, finzione e ipocrisia sociale) una vera e propria trasfigurazione dell’esperienza. Quando leggiamo, immaginiamo, ed è l’immaginazione il fulcro di qualsiasi narrazione: estrarre e mettere al centro dell’attenzione il lavoro compiuto dall’immaginazione nel narrare Anna Karenina ci sembra lo sforzo compiuto da questo film. In questo senso non si possono non segnalare sequenze di grande impatto, come quella del ballo, o la tragica scena finale, dotata di una sottile capacità di asciugare il peso melodrammatico della storia grazie a interessanti espedienti formali che rompono il realismo della vicenda.

Jude Law nei panni di Aleksej Karenin, marito di Anna

Sforzo tanto più riuscito perché il film non sembra mai ridondante. Al contrario, nella magnificenza irreale dell’impianto scenografico, nella geometrica composizione visiva e nonostante il set sia sempre esibito come una sorta di sostituto visivo di una voce narrante di fondo che sempre ci accompagna nella storia facendovi da filtro, il regista lascia intatta la credibilità realistica della vicenda, non facendosi alcun problema nel trasformare, allo scopo, il personaggio di Anna in una giovane credibile forse per un film del nostro secolo, ma improbabile nel romanzo di Tolstoj.

Ed è per questo che l’operazione appare riuscita, perché nonostante tutto questo straniamento, nonostante tutta questa finizione ostentata, il tutto può apparire kitsch ma non ci appare mai -assolutamente mai- come un mero gioco formale, come un’operazione intellettualistica, quanto piuttosto come un modo per farci rivivere il racconto con la stessa naturalezza propria di chi lo ha immaginato.

 

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