Angelo Curti non ha mai sentito la necessità di produrre almeno un film all’anno. Le opere che ha seguito, e ne ha seguite diverse, sono arrivate al momento giusto, quando sia il copione che l’autore che lo aveva scritto erano pronti. Con Falso Movimento prima e Teatri Uniti dopo, Curti ha partecipato attivamente alla rivoluzione più recente della scena culturale napoletana e italiana.
Nel tempo, il suo lavoro si è allargato e diversificato: ha cominciato a seguire attori e talent, come Toni Servillo, e a occuparsi di programmazione. Si definisce produttore spirituale. Dietro alcuni degli esordi più brillanti degli ultimi trent’anni c’è lui. Pensiamo a L’uomo in più di Paolo Sorrentino o a Morte di un matematico napoletano di Mario Martone. Curti ha trovato quasi naturalmente una propria dimensione, e ha capito che fare il produttore, alla fine, significa saper intervenire senza essere notato, dando spazio alle idee e agli autori, andando sul set se serve e cercando sempre di fare la propria parte.
Se l’autore è la madre di un film, dice Curti, il produttore è il padre. Il cinema italiano è cambiato, si è trasformato, e così il pubblico. Oggi si va in sala con un’altra intenzione e un altro scopo; prima, invece, ci si andava per rispondere a una vera e propria necessità. Per Curti, è importante sapersi ripensare, trovare nuovi stimoli e modi per coinvolgere gli spettatori, per allargare i propri orizzonti e per rispettare quello che è il senso profondo del cinema: la sintesi. Questo è il suo Controcampo.
Com’è cambiato il cinema italiano?
Il mio punto di vista è quello di qualcuno che ha un’età. Quando ho cominciato a lavorare al mio primo film, Morte di un matematico napoletano, era il 1990. E quello era un periodo difficile. Io, però, faccio sempre una distinzione.
Quale?
Tra i tempi in cui si andava al cinema e i tempi, come oggi, in cui si va a vedere un film. È cambiata quella che è la funzione della sala cinematografica, ed è cambiata in maniera estesa coinvolgendo il senso del linguaggio utilizzato, del sistema e – se si può usare questo termine – dell’industria. Il cinema, una volta, sovveniva a un bisogno specifico delle persone. Ed era un bisogno di immagini. Io sono nato nel ‘59, e ricordo quando le sale erano tante e diffuse nel tessuto urbano. Il cinema era l’unica possibilità per guardare delle immagini in movimento.
E la televisione?
All’epoca era ancora piccola, in bianco e nero, e con una limitatissima possibilità di scelta. Nelle sale, invece, c’erano le seconde visioni e i cosiddetti proseguimenti e arrivavano nuovi film ogni giorno. C’era l’abitudine di entrare anche a proiezione già iniziata. E chi poteva guardava lo stesso film più volte, restando seduto al suo posto e aspettando magari di rivedere una scena particolare. E poi c’erano i prossimamente e il cinegiornale, due cose che, fuori, nel mondo esterno, non potevi trovare.
Oggi questo bisogno non c’è più?
Oggi il bisogno è diverso. Quando sono in determinati contesti, con degli studenti, faccio sempre questo esempio.
Dimmi.
Prendi il ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti, Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo, che si trova al Palazzo Pubblico di Siena. Per un cittadino di quell’epoca, del 1300, aveva la funzione di una serie televisiva o di una storia di Guerre Stellari. Poter nutrirsi delle immagini, attraverso lo strumento dell’epoca, la pittura, assolveva a una funzione importante. Se vuoi, è cominciato tutto con le pitture rupestri. Ora non voglio tirarla per le lunghe, ma è così.
Oggi dicevi che il bisogno è diverso.
Oggi ci sono altri strumenti per la fruizione delle immagini. Io però credo che la sala, come luogo e mezzo, resti ancora insostituibile. Soprattutto perché ti permette di vedere qualcosa attraverso gli occhi degli altri. E io da produttore, da uomo che ha lavorato a dei film, che li ha seguiti in ogni momento e in ogni fase, dall’ideazione al set – che per me, però, è principalmente il luogo della troupe e degli autori – fino al montaggio, ne ho sempre avuto una percezione diversa la prima volta che li ho guardati insieme ad altre persone. Proprio perché li ho visti anche con i loro occhi. Poi c’è un discorso che riguarda prettamente il linguaggio, e si cita sempre la famosa frase di Marlon Brando: il teatro è degli attori, il cinema è dei registi e la televisione è dei residui.
Ora non è più così.
No, non lo è. Oggi la televisione appartiene di diritto agli sceneggiatori. Nel cinema, comunque, il compito di un autore è quello di raccontare una storia in modo compiuto. L’obiettivo di una serie televisiva, invece, è riuscire a guadagnarsi una seconda, una terza o una quarta stagione. Questa dilatazione del racconto porta a un linguaggio totalmente diverso.
Tu che cosa pensi?
Personalmente sono legato al cinema, e ci sono delle cose di cui parlarono anche Truffaut e Hitchcock nella loro famosa intervista a cui sono profondamente affezionato. Per fartela breve, nel cinema resiste una dimensione di pura sintesi, dove convivono visione, suono e immagini. Nel cinema di oggi vengono spesso trasportate delle dinamiche che appartengono a un modo di raccontare più lungo.
Ci sono delle eccezioni?
Qualche giorno fa ho visto il film di Celine Song, Past Lives. E a un certo punto il protagonista va in Cina, e quel momento è raccontato attraverso una passeggiata, degli sguardi, lunghi silenzi e Skype che non funziona. Quello, per me, è cinema. Song ha raccontato con pochissimo quello che in una serie televisiva poteva essere se non una puntata intera una sequenza molto lunga. Per carità, magari non tutti colgono le varie sfumature, però chi è pronto a vedere noterà sicuramente qualcosa.
Il mestiere del produttore, invece, com’è cambiato?
Io dico sempre che il ruolo del produttore è assimilabile a quello del padre di una famiglia, e se gli autori sono le mamme i film – e, più in generale, andando oltre il cinema, le opere – sono i figli. Ed è vero, i figli sono sempre delle mamme, ma sono fondamentali entrambi i genitori. L’autore cresce dentro di sé la storia, la cura, la rivede e ci tiene profondamente; il produttore deve avere la capacità di intervenire e di mantenere un punto di vista più largo. Oggi sembra quasi il contrario, che un film si possa fare anche senza l’apporto di una delle due figure. Ma non è così.
Diventa indispensabile partecipare attivamente alla realizzazione di un’opera?
Ciò che resta assolutamente indispensabile è l’autore, nient’altro. Personalmente, credo che i film che hanno ottenuto meno risultati tra quelli che ho prodotto siano esattamente quelli dove sono dovuto intervenire più a fondo, sia sulla sceneggiatura che al montaggio. Indubbiamente, però, lo sguardo esterno del produttore può essere utile.
Per esempio?
Quando Paolo Sorrentino ci portò il copione de L’uomo in più, che all’inizio si chiamava Il cantante e il calciatore, gli consigliai di ambientare la storia nella prima metà degli anni Ottanta e non alla fine degli anni Novanta, come invece aveva fatto lui nella prima stesura. Ci sono delle sceneggiature che se le metti sul tavolo restano lì, immobili. Ci sono altre sceneggiature, invece, che se le metti sul tavolo si muovono. E così era la sceneggiatura de L’uomo in più. Il copione era già straordinario; io mi limitai a dargli un suggerimento. E sono questi piccoli accorgimenti che caratterizzano il ruolo del produttore. Non c’è per forza bisogno di invadere la sfera dell’autorialità.
Prima mi hai detto che il produttore sa mantenere uno sguardo più ampio sull’opera. In che senso?
Un produttore, proprio perché non è coinvolto visceralmente nel processo di crescita di un’opera come il suo autore, riesce a vedere cose che all’autore possono sfuggire.
Come sei arrivato a questo ruolo?
Io ho iniziato ai tempi del liceo, con Mario Martone e Pasquale Mari eravamo attori nel teatro che allora si definiva di sperimentazione. Poi mi sono occupato delle parti filmate, in Super 8, dei nostri primi spettacoli con il gruppo Falso Movimento. Ricordo che all’epoca diverse persone chiedevano a Mario Martone perché dopo un teatro così cinematografico non facesse un vero film da regista.
E lui che cosa rispondeva?
Con l’intelligenza che lo contraddistingue, rispondeva che avrebbe potuto fare un film solo da regista di cinema, non da teatrante affacciato sul cinema, come erano Carmelo Bene, Memè Perlini o in epoca più recente Pippo Delbono, di cui abbiamo prodotto il primo film, Grido, nel 2006. A partire dai film che abbiamo realizzato insieme, Mario Martone, come successivamente Toni Servillo, si è collocato nel territorio degli artisti che io chiamo anfibi: che riescono a stare, cioè, sia nel cinema che nel teatro con estrema facilità e naturalezza. Da Visconti a Bergman e a Fassbinder, fino a Sam Mendes e Martin McDonagh, e per farti un altro nome in Italia c’è anche Roberto Andò.
Secondo te, oggi si punta subito al cinema perché il teatro, a una prima occhiata, può sembrare più difficile e meno soddisfacente?
Quando ho cominciato io, talvolta di un attore si diceva con accento romano: “è de teatro, però è bravo”. E lo si diceva quasi con sorpresa, come se si trattasse di una rarità. Perché all’epoca i grandi attori di teatro al cinema non funzionavano bene. Ma le cose, nel tempo, sono cambiate. Nel periodo d’oro del cinema italiano molti attori venivano dal teatro. Poi c’erano quelli che non riuscivano a fare il salto. La domanda che poni si riferisce, secondo me, a quei ragazzi che pensano che il teatro sia l’anticamera del cinema. E allora finché devono lavorano in teatro, ma appena possono vanno al cinema. Anzi, vanno in televisione.
Perché in televisione?
Perché oggi la vera concorrenza è con il piccolo schermo. Pensa allo straordinario serbatoio di attori che oggi c’è a Napoli; alcuni di loro hanno trovato una collocazione in quella che è la serie soap più longeva di sempre, Un posto al sole. Spesso, finiscono quasi intrappolati. Un tempo per gli attori c’era la radio.
C’entra mai la paura?
Alcuni attori hanno paura della dimensione della scena teatrale, certo. Non credono di essere in grado di recitare dal vivo, senza pause o la possibilità di riprovarci. Ma più che paura, forse, è insicurezza. O, all’estremo, una consapevolezza profonda dei propri mezzi. Lo stesso succede anche ai registi.
Un’altra cosa che, recentemente, sta succedendo spesso è vedere attori e attrici alla regia.
Nella nostra lingua, ormai, il superlativo assoluto di attore non è attorissimo, è regista. Questi discorsi si sono fatti per tanto tempo, e per tanto tempo si ripetevano le stesse cose: con un bravo aiuto, con un bravo direttore della fotografia e con una bravo montatore, un film si può girare. Ma allora, chiedo, che senso ha farlo? Poi ci sono delle eccezioni come quella di Paola Cortellesi, che ha fatto un film che è riuscito a rinvigorire il desiderio di tanti attori di passare dietro la macchina da presa. E lo capisco, figurati. Per l’attore quella della regia è una dimensione seducente, sexy.
I produttori, mi hai detto poco fa, sono un po’ come i padri di un’opera. A volte, però, non c’è la tendenza a sottrarsi alla responsabilità di genitore e all’importanza di saper dire di no?
Fare il produttore per vocazione paterna è una cosa; farlo, invece, perché si è affetti dal virus A, il virus degli artisti come lo chiamo io e di cui mi ritengo un portatore sano, è un altro discorso. In questo caso, non riuscendo a esprimersi come autori, si pensa che sia più facile fare il produttore. Le fenomenologie sono diverse. Ci sono produttori che preferiscono fare unicamente da tramite tra – per esempio – una piattaforma e un autore, ma in quel caso non partecipano davvero allo sviluppo dell’opera.
Che cosa serve?
Trovare un equilibrio, essere consapevoli del lavoro dell’autore e non essere invasivi. Serve una certa sensibilità. A volte, si ottengono i risultati migliori intervenendo poco, con un mugugno o un cenno. Bisogna essere bravi a far cadere un suggerimento decisivo senza farsi notare troppo, tanto che l’autore talvolta finisca per pensare che l’idea sia stata sua.
Nella tua carriera hai seguito molti esordi importanti, come quelli di Sorrentino e Martone che abbiamo citato prima. Da che cosa si riconosce una storia che vale la pena di produrre?
Il caso di Mario Martone è particolare. Ci siamo conosciuti a scuola; abbiamo frequentato lo stesso ginnasio e lo stesso liceo, e in quel periodo abbiamo cominciato a fare teatro insieme. E produrre il suo primo film è stato uno sviluppo naturale. Dopo l’evoluzione del nostro gruppo, da Falso Movimento a Teatri Uniti, e dopo una partenza particolarmente difficile, Mario ha deciso di provare a fare un film che non avesse nulla a che vedere con l’impianto tipicamente teatrale. Sulla carta sembrava un progetto assurdo, Morte di un matematico napoletano. Si è trattato di una crescita comune.
Con Sorrentino, invece, com’è andata?
Paolo frequentava l’ufficio di Teatri Uniti e lavorava sul set di un altro esordio, Il verificatore di Stefano Incerti; faceva il volontario di produzione. Fece vedere a me e a Nicola Giuliano, che allora era il nostro direttore di produzione, un suo mediometraggio. Ricordo che lo guardammo a casa mia, in VHS. E notammo che aveva qualcosa di speciale. Però non abbiamo prodotto il primo copione che ci ha mandato; gli abbiamo sempre detto di andare avanti, di cambiare, di trovare altro. E alla fine ci ha portato Il cantante e il calciatore.
Di che anni parliamo?
Era il 1998. Avevo lavorato ai primi tre film di Mario: il secondo, L’amore molesto, ebbe un incredibile successo anche commerciale, mentre Teatro di guerra fu un progetto complesso, più articolato, ma è quello di cui sono più orgoglioso. Perché è un film che solo noi, con la nostra storia e la nostra esperienza in teatro, potevamo fare. Ecco, in quel periodo, Riccardo Tozzi aveva appena lasciato Mediaset e aveva fondato Cattleya, e stava cercando idee e progetti. Io gli portai due copioni.
Quali?
Uno era L’uomo in più e l’altro era La volpe a tre zampe, l’esordio di Sandro Dionisio. E alla fine Tozzi decise di produrre questo. Fu un film abbastanza sfortunato, perché non riuscì a uscire nemmeno in sala. Andò a Berlino e a Giffoni, ma venne visto come un film per ragazzi, che in Italia è un genere che non ha molto seguito.
E L’uomo in più?
Non lo accettò, non gli interessava. Chi credette ne L’uomo in più fu Kermit Smith, che aveva fondato Lucky Red con Andrea Occhipinti. Purtroppo morì prima dell’uscita del film. Il successo, nella sua totalità, si rivela solo dopo diverso tempo, quando c’è il modo di poterlo osservare da una certa distanza.
Di che cosa credi che abbia bisogno oggi il cinema italiano?
Il mio lavoro in questi anni si è mosso anche in altre direzioni, ora abbiamo anche un’agenzia che segue alcuni attori, come Toni Servillo al cinema e Enrico Ianniello in televisione. In questo periodo leggo più copioni come agente che come produttore recentemente. Adesso ne ho letto uno di un ragazzo giovane, nato negli anni Novanta, che mi è sembrata una di quelle sceneggiature che, quando le metti sul tavolo, si muovono. Quindi, prossimamente, proverò a sviluppare questo film. Ma tornando alla tua domanda: da un punto di vista industriale, credo che il peso delle piattaforme e di una fruizione non collettiva sia sempre più preponderante. La sala, come ti dicevo, continuerà ad avere un ruolo importante. E alcuni esercenti stanno lentamente sviluppando una differente modalità di programmazione.
E cioè?
Si programmano film in lingua originale, e si segue una linea editoriale precisa. A Napoli c’è una sala, che si chiama La Perla, che è riuscita a resistere nonostante l’apertura a poca distanza di un cinema The Space. E ci è riuscita perché programma film che il suo pubblico vuole vedere e che continua ad andare a vedere, perché organizza eventi e invita importanti attori e registi. E loro ci vanno perché incontrare un pubblico di quasi mille persone nell’arco di due proiezioni è più che raro oramai. I mutamenti e le mutazioni della società vanno interpretati; il cinema deve essere guidato dagli autori, e gli autori hanno bisogno di un sostegno, anche dal punto di vista creativo.
Come si può proteggere e sostenere ulteriormente l’esperienza cinematografica?
Ti faccio un esempio. Negli ultimi mesi, abbiamo aperto la Sala Assoli, che si trova vicino al Teatro Nuovo nei Quartieri Spagnoli, alle proiezioni cinematografiche. È un luogo dove Sorrentino ha girato il suo primo cortometraggio e dove, di fatto, è nato Teatro di guerra. Proponiamo soprattutto film che hanno a che fare con il teatro. E credo che sia importante questo: provare ad allargare e a coinvolgere il pubblico. E credo che serva anche inventarsi delle iniziative. Quando eravamo piccoli noi, c’era il cineforum.
E oggi?
Oggi si possono fare delle rassegne per permettere alle persone di recuperare film che non hanno visto e si possono offrire degli abbonamenti a prezzo ridotto. E in questo modo si intercettano pubblici diversi, che hanno interessi in comune. Ciò che fa la differenza, ovviamente, è quello che nella nostra lingua si chiama “nu bellu film”. Perché partire da un buon film non è una condizione sufficiente, ma è sicuramente necessaria. Il cinema è oggi sempre più una forma di spettacolo dal vivo, si è trasformato, come già avvenuto per l’opera lirica, da linguaggio popolare a forma espressiva che si rivolge a un pubblico selezionato che sceglie e va scelto.
E di questo progetto che stai seguendo come produttore, che hai trovato recentemente, che cosa mi puoi dire?
Che chi l’ha scritto è molto giovane, e che a breve cominceremo a lavorarci. L’ultima esperienza che ho fatto di produzione è stato Santa Lucia di Marco Chiappetta, un ragazzo che è nato nei giorni in cui giravamo Morte di un matematico napoletano, nell’agosto del 1991. La prima volta che l’ho incontrato è stato nel 2010, quando aveva 19 anni. E come nel caso di Paolo Sorrentino, l’abbiamo stimolato a tirare fuori un copione interessante. Abbiamo girato in due fasi nel 2020 e nel 2021, molto faticosamente, tra virus e tutto il resto, e siamo riusciti ad andare al Torino Film Festival. La Rai ha ignorato il film, però siamo stati comunque in grado di portarlo a termine grazie al sostegno del Ministero e della Regione Campania e a distribuirlo in Italia e all’estero.
E che cosa si deduce da quest’esperienza?
Si tratta di seguire con attenzione e cura le singole opere; è chiaro che questa non può essere una ricetta assoluta, perché non esistono ricette assolute. E io, francamente, non credo di poter essere un esempio per gli altri. I primi film, però, si fanno per permettere agli autori di fare esperienza e di trovare la propria voce. Poi quelli che hanno le ali volano.
Proprio all’inizio di questa telefonata, ti sei definito “produttore spirituale”. Perché?
Perché come dice qualcuno lo spirito soffia dove vuole, e questa è sempre stata una cosa che mi ha contraddistinto. La libertà.