Più di venti anni fa, Andrea Paris fondava la Ascent, una società di produzione che nel corso del tempo è entrata a far parte prima di Groenlandia e poi di Banijay. Da allora, l’obiettivo di Paris è rimasto sempre lo stesso: cercare di costruire una casa per il cinema indipendente italiano, del tutto simile nelle aspirazioni e nelle intenzioni alla Searchlight.
Negli ultimi anni, il mestiere del produttore è cambiato profondamente. Ed è cambiato profondamente perché sono cambiati anche il mondo e i mezzi, tra nuovi strumenti finanziari e nuove tecnologie. La cosa più importante, però, restano le storie. Sono quelle, dice Paris, il punto di partenza per qualsiasi tipo di progetto. Se non ci sono buone storie, è difficile trovare un contatto con il pubblico. E se non c’è il pubblico, manca la materia prima del cinema: le emozioni e la voglia di condividere.
Il quadro dell’industria italiana, oggi, è particolarmente complicato. In parte per i ritardi sul tax credit, e in parte perché, dopo il boom della pandemia, i costi sono aumentati enormemente, raggiungendo picchi del 30% e, a volte, del 40%. La stessa Ascent si sta concentrando principalmente sul 2025, provando a navigare a vista la seconda metà del 2024. Se Paris ha scelto il cinema, è stato per Francesco Nuti, che gli ha dato una possibilità quando, nella sua vita, non sapeva che cosa fare. È a lui, Luciana Castellina, Giorgio Cosetti e a Luciano Sovena che vanno i suoi ringraziamenti. Questo è il suo Controcampo.
Come sta Ascent?
Bene. Noi – e quando dico noi mi riferisco a me, a Matteo Rovere e a Sydney Sibilia, visto che facciamo parte dello stesso gruppo – siamo soddisfatti. In particolare, per quanto riguarda la linea di Ascent, che seguo di più io, siamo riusciti a mantenere la barra dritta. Scherzandoci, dico da sempre che mi piacerebbe che Ascent diventasse la nostra Searchlight.
In che senso?
Per me Ascent è un posto dove poter sperimentare e fare un film non necessariamente commerciale. Detto questo, oramai sono saltati tutti i parametri. Voglio dire: quello che prima era commerciale, oggi, non fa un euro; e quello che prima non era commerciale oggi incassa di più. Pensiamo a Perfect Days di Wim Wenders o a Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki. Quindi, tornando alla tua domanda, Ascent sta bene.
Come vi state muovendo?
Cerchiamo sempre di seguire poche produzioni proprio per dare il massimo e fare il miglior lavoro possibile. Mediamente, proviamo a fare uno o due film all’anno. Non sono un amante estremo della produzione seriale, nel senso che non sempre mi piace. Però abbiamo fatto anche quella, con Antonia.
A proposito di Antonia: ci sarà una seconda stagione?
Questo, per ora, non te lo so dire. Intanto, però, ho fatto scrivere un soggetto. Vediamo come va.
Il vostro obiettivo, tuo e di Ascent, restano comunque le sale.
E mi do la zappa sui piedi non una, non due, ma tre volte. Provo sempre a esaltare e a mettere al centro di tutto l’esperienza cinematografica. Ci credo tantissimo. Al di là di Ascent, sto lavorando ad alcune cose anche per Groenlandia, cercando sempre di seguire la stessa linea editoriale. In più, permettimi: Ascent ha compiuto vent’anni e Groenlandia si prepara a compierne dieci. Direi che siamo contenti.
Quanto è difficile creare e sostenere una società con aspirazioni simili alla Searchlight in Italia?
In Italia, è difficile fare film. In generale. E al di là delle intenzioni che si hanno. In questi ultimi anni, c’è stato un aumento del numero delle società di produzione, forse grazie ai finanziamenti pubblici. Le società che sono rimaste attive alla fine, però, sono relativamente poche. Quest’anno, forse, è ancora più difficile. Innanzitutto per la riforma della legge Franceschini e poi per l’assenza di una chiarezza sul tax credit. Si sente molto un’incertezza diffusa su quelli che saranno i prossimi sviluppi. Anche noi, che siamo un gruppo abbastanza consolidato, abbiamo diminuito la produzione sul 2024 preferendo concentrarci sul 2025. È indubbia, però, una cosa.
Quale?
Rispetto agli inizi oggi ci sono molti più strumenti economici per finanziare lo sviluppo di un film, e non mi riferisco unicamente a quelli che vengono forniti dallo Stato. Il tax credit ci è stato copiato dai francesi, che non sono proprio i primi pronti a seguirci in materia di cinema, e dagli inglesi. Ci sono dei fondi regionali molto attivi. Dieci anni fa, c’erano appena due regioni che finanziavano il cinema, il Piemonte e la Puglia. Come Ascent, lavoriamo a molte coproduzioni, soprattutto con la Francia, e ci sono degli strumenti che mette a disposizione il MIC per lo sviluppo di produzioni europee. E poi ci sono i fondi per la produzione delle cosiddette opere difficili, parola terribile, come le opere prime e le opere seconde. Insomma, stiamo attraversando un vero e proprio dualismo. Da una parte c’è un grosso rallentamento, che fa paura, e dall’altra resiste la possibilità di mettere in piedi dei progetti.
C’è, però, un altro problema. Quello dei costi.
Sono arrivati a un aumento del 30%, con punte del 40%, negli ultimi diciotto, ventiquattro mesi. E questa cosa ha creato un ulteriore problema nel sistema. Quella che vedo, però, non è la difficoltà nel fare; la difficoltà vera sta nel trovare storie capaci di creare un legame con il pubblico. Per fortuna, un certo cinema di qualità non solo ha mantenuto questo contatto, ma è riuscito addirittura ad approfondirlo e ad allargarlo. Penso nuovamente a Wenders e a Miyazaki, e lì va apprezzata la bravura di Lucky Red, il distributore, che ha fatto un lavoro certosino, attivandosi mesi prima rispetto all’uscita. E questo ci dice una cosa: se i film sono ben curati, se hanno delle belle storie, se dietro c’è un’idea forte, possono andare benissimo.
Oggi è diventato più complicato far esordire giovani?
Mi ricollego a quello che ho detto prima. In linea di massima, provando a tenere una certa distanza dalla realtà in cui ci muoviamo, è diventato più difficile, sì. Sia Groenlandia che Ascent vogliono investire molto su opere prime, e penso si sia visto in questi anni. Il vantaggio delle opere prime è che, a fronte di una buona idea, difficilmente hanno dei costi esorbitanti. Lavorare con un grosso budget, fin dall’inizio, può essere un problema difficile da superare. Mi sento abbastanza sicuro e tranquillo nel dirti che in un range che va da un milione ai tre milioni di budget hai la possibilità di finanziare il tuo film. Certo, un’opera prima ha bisogno di molto più tempo ed è importante anche trovare altri produttori e finanziatori. Un esempio su tutti è Smetto quando voglio, che abbiamo fatto con Domenico Procacci. E a fronte di qualunque difficoltà, è qui che credo che sia importante investire.
Perché?
Perché è quello di cui abbiamo bisogno. Gloria! di Margherita Vicario, che è un film meraviglioso e un ottimo esordio, ha avuto bisogno di tempo e di attenzione. Ma alla fine se ti impegni vieni ripagato e hai molta più soddisfazione. In questo caso, tutto il merito va a Rai Cinema, Tempesta e al distributore, 01.
Qual è, allora, il problema? Cos’è che non riusciamo a fare per avvicinare il pubblico ai film?
Secondo me, sarà sempre più importante per l’esperienza cinematografica, e per convincere le persone a uscire di casa, avere una storia di qualità, trovare il giusto passaparola e ritagliare un investimento sostanzioso e concreto nella promozione. E promozione significa anche portare gli autori nelle sale, per parlare e incontrare il pubblico. Noi parliamo spesso dei grossi circuiti cinematografici, sia multiplex che cittadini, ma c’è una rete sotterranea di quasi centocinquanta sale incredibile. E sono queste sale che possono fare la fortuna di un film. Però parliamoci chiaro.
Dimmi.
Tutto parte dalla storia, su questo voglio essere chiaro. Senza la storia, i discorsi che stiamo facendo sono inutili. E il problema vero, se vogliamo parlare proprio di problemi, è quello. Trovare ragazzi e ragazze con qualcosa di interessante da dire, pronti a raccontarsi veramente, mettendo in gioco sé stessi, senza nascondersi o cercando l’artificio di un filtro di finzione. A volte le aspirazioni autoriali possono frenare o rendere più difficile la realizzazione di un’opera prima. Non è così sempre, ci tengo a precisarlo. Ci sono altri ragazzi e ragazze che ascoltano con attenzione, perché sono curiosi e vogliono imparare.
Qual è la prima cosa che chiedi a chi ti porta l’idea di un film?
Perché vuole raccontare questa storia, che cosa lo spinge. Fare il produttore, a volte, significa provare ad analizzare le persone con cui si ha a che fare. Ma non solo. Bisogna voler fare un film, bisogna sentirne la necessità. E questa necessità, che è come un fuoco, è una cosa estremamente rara. Spesso, si punta a colpire il produttore o l’eventuale player.
Chi è che ha l’ultima parola, il regista o il produttore?
I film alla fine sono dei registi. Dipende dal tipo di progetto. E comunque in Italia non abbiamo mai avuto dei produttori così forti o decisivi. Si parla. A volte, si riesce a trovare un equilibrio. A volte, ci si ascolta. Io resto dell’idea che il film appartenga al regista e che la più grande responsabilità sia sua. Bisogna fidarsi e affidarsi, in questo mestiere.
Quanti progetti ricevi ogni mese?
Abbiamo fatto il calcolo poco tempo fa. Prima, però, ti faccio una piccola premessa: io cerco sempre di leggere tutto quello che ci arriva, e tendo a non farmi mandare cose che non sono richieste per un semplice motivo. Non voglio tenere nessuno in sospeso, e non voglio nemmeno vivere l’ansia di dover rispondere velocemente. Per Ascent, riceviamo circa 10 o 15 progetti al mese. E sono progetti che ci arrivano da chiunque. Non per forza da registi o sceneggiatori. Alla fine, i progetti che mettiamo in sviluppo sono molto pochi.
Su quanti stai lavorando in questo momento?
Sto lavorando all’opera prima di questo regista, che si chiama Gipo Fasano. L’ho scoperto grazie a Federico Pontiggia, che mi aveva segnalato un film che Gipo aveva fatto con il telefonino. Si chiama Le Eumenidi, ed è stato girato nell’arco di tre anni con un gruppo di amici. È stato presentato qualche anno fa alla Festa del Cinema di Roma. Ed è stato un film che mi ha convinto molto e che per una serie di problemi non può essere considerato come un vero e proprio esordio.
Che cosa ti aveva colpito di questo film?
Gipo aveva ambientato la storia di Eschilo nella Roma contemporanea dei Parioli. Ed è una cosa che a me piace molto, anche perché mi sento estremamente vicino a quella zona della città. Per questo motivo, ho apprezzato il lavoro di Pietro Castellitto. Ho sempre cercato un autore giovane capace di raccontare bene un ambiente. Quindi, ti dicevo: stiamo lavorando a questo progetto, che Gipo sta scrivendo con Luca Infascelli; stiamo lavorando al nuovo film di Domenico De Feudis, che ha fatto con noi La coda del diavolo, un thriller con Luca Argentero che uscirà quest’estate con Vision e poi arriverà su Sky. Sto lavorando a una serie, di cui posso dire ancora poco, e che sarà un po’ come Antonia. Nel senso che sarà low profile. Sto lavorando alla coproduzione de La sconosciuta, il nuovo film di Arthur Harari, che ha vinto l’Oscar con Justine Triet per la sceneggiatura di Anatomia di una caduta. Dovrebbe arrivare a marzo 2025. E poi per Groenlandia seguirò il remake italiano di The Bridge.
In questi vent’anni di Ascent quanto è cambiato il ruolo del produttore e quanto sei cambiato tu facendo il produttore?
Io sono cambiato molto. Spero in meglio. Ma sono ancora estremamente appassionato e contento del lavoro che faccio. Ho lo stesso entusiasmo. Ho iniziato a lavorare, di fatto, con Matteo Rovere. Ascent è nata ufficialmente nel 2003, ma in realtà abbiamo iniziato a sviluppare le prime cose nel 2008. Il ruolo del produttore, invece, è diventato più libero. Sono migliorate le tecnologie, che hanno permesso a una serie di registi di sperimentare. Se penso a Homo Homini Lupus, il cortometraggio di Matteo, ricordo che usammo le camere che ci avevano prestato i vari fornitori. L’avessimo girato anche solo cinque anni prima, sarebbe stato impossibile, perché avremmo dovuto usare la pellicola.
Qual è il film che ti piacerebbe produrre?
Un film di animazione. Mi sarebbe piaciuto produrre Linda e il pollo, il film con cui Chiara Malta, la regista di Antonia, ha vinto un César. Quando vedo film come questo, o come Il mio amico robot, non riesco a non pensarci. Mi piacerebbe affrontare la sfida di un progetto del genere, visto quanto è difficile, oggi, trovare i finanziamenti per l’animazione in Italia. E poi mi piacerebbe tantissimo produrre un horror. Ne abbiamo fatto uno, Shadows, con Carlo Lavagna. Ma ha avuto la sfortuna di uscire in piena pandemia.
Chi sono i talenti che tieni d’occhio?
Ho un amore viscerale per Céline Sciamma. Mi piacerebbe molto lavorare con lei. E tra gli italiani, be’… A casa ne ho due veramente bravi. (ride, ndr) Ci sono tantissimi registi che mi piacciono, come Matteo Garrone, ma alla fine i legami si stringono sulle storie.
Qual è l’ultimo film, non vostro, che hai visto che ti è piaciuto?
Gloria! di Margherita Vicario, che ti citavo prima, e poi Challengers di Luca Guadagnino.
Perché Ascent?
Nasce dalla mia passione per la montagna. Quando ero all’università e avevo tra i 22 e i 23 anni, ricordo di essere andato a casa di una ragazza a studiare e che questa ragazza aveva un librone intitolato Personology. È un libro in cui ci sono tutti i giorni dell’anno, e a ogni giorno corrisponde la descrizione del carattere delle persone che nascono in quello stesso giorno. E nel mio giorno, il 15 gennaio, si parlava di ascesa. Ed è una cosa che mi è rimasta impressa.
E perché il cinema?
È sempre stata una delle mie più grandi passioni. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, andavo tantissimo al cinema. Di solito la domenica sera. I film mi sono sempre piaciuti. Vedevo di tutto. Non ho mai pensato di farla diventare una professione, soprattutto quando andavo all’università. Frequentavo Giurisprudenza, e ho quasi rischiato di diventare un avvocato. La spinta me l’ha data una persona in particolare, e questa credo che sia la prima volta che ne parlo pubblicamente.
Chi?
Francesco Nuti. Negli ultimi anni dell’università, con degli amici gestivamo dei locali a Roma, soprattutto d’estate. E in uno di questi locali veniva spesso Francesca Nuti. Alla fine siamo diventati amici. Era una persona straordinaria, di una gentilezza incredibile. Le chiacchierate iniziavano sempre dai suoi film. Un giorno gli dissi che mi piaceva il cinema, e lui mi invitò sul set di Io amo Andrea. E poi fece una cosa, per me, pazzesca. Che non dimenticherò mai.
Che cosa?
Quando mi sono laureato, ero indeciso su cosa fare, se partire e continuare a studiare legge in America. Nuti, una sera, ha incontrato a una cena Luciana Castellina, che all’epoca stava mettendo in piedi l’agenzia Italia cinema, quella che oggi si chiama Film Italia. E le ha fatto il mio nome.
E che cosa successe, a quel punto?
Io andai a fare un colloquio e alla fine mi presero. Così, a 28 anni, mi sono ritrovato a lavorare con Luciana Castellina e Giorgio Gosetti, un’altra persona a cui devo tantissimo, per promuovere il cinema italiano all’estero. Ed è stato in quel periodo che ho capito la percezione che hanno di noi, dei nostri film, negli altri paesi. Quindi, per rispondere alla tua domanda: ho scelto il cinema grazie a Francesco Nuti, Luciana Castellina, Giorgio Cosetti e, successivamente, a Luciano Sovena.
Qual è quella cosa che ha solo il cinema e che va preservata?
La sua capacità di emozionare. Il cinema riesce a farti entrare in mondi incredibili, facendoti sentire improvvisamente vicino a persone che non conosci, che condividono con te la stessa sala. Due anni fa, ero a Berlino e sono andato a vedere Laggiù qualcuno mi ama, il documentario di Mario Martone. Era un cinema enorme. C’erano tantissimi italiani, quasi la maggioranza, ma c’erano anche tanti stranieri. E ti dico la verità: non ho mai riso così tanto. E stavamo rivedendo dei pezzi dei film di Troisi. E quando sono uscito, me lo sono chiesto.
Cosa?
Quando mi sono emozionato così tanto?
E che cosa ti sei risposto?
Solo al cinema.