Lucky Red è una delle realtà più importanti del cinema italiano. Indipendente, con una visione e una linea editoriale molto chiare, si divide tra distribuzione, produzione ed esercizio con Circuito Cinema. Andrea Occhipinti, che l’ha co-fondata nel 1987, ha ancora lo stesso entusiasmo di quando ha cominciato. Dice che adora questo lavoro e che la possibilità e la speranza di trovare una storia emozionante e di essere attraversato da una scarica di adrenalina per un’intuizione sono motivi più che sufficienti per continuare ad andare avanti.
Nel tempo, racconta, tutto è cambiato. E l’Italia, sotto determinati punti di vista, è rimasta indietro. Tra progetti animati e prossimi film, traccia un quadro preciso della situazione italiana. Da una parte ci sono Rai, Mediaset e Sky, con le loro filiali. Dall’altra, ci sono tanti piccoli soggetti che provano a unirsi e a lavorare insieme, e realtà che sono spesso controllate da grandi gruppi internazionali.
La bolla che si è gonfiata durante la pandemia ora si sta sgonfiando: si fa meno e c’è una selezione ulteriore, in particolare per le opere prime. Il cinema, ammette Occhipinti, è sempre stata una sua grande passione. Prima di fare il produttore e il distributore, e anche l’esercente con Circuito Cinema, faceva l’attore. “Non era quella la mia strada, ma mi ha permesso di avvicinarmi a questo mondo”. Oggi, tra gli incassi de Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki e di Perfect Days di Wim Wenders, ribadisce l’importanza dei contatti e di un lavoro curato e attento per avere una riconoscibilità e una reputazione all’estero. Cita spesso la Francia, e non si tira indietro davanti alle critiche. Questo è il suo Controcampo.
Vi aspettavate una risposta simile per Il ragazzo e l’airone?
A questi livelli, forse no. Però già un mese e mezzo fa, Gabriele D’Andrea (direttore della divisione theatrical di Lucky Red e amministratore delegato di Circuito Cinema, ndr) aveva cominciato a dirmi che c’erano dei segnali molto positivi e interessanti, decisamente superiori rispetto a quelli che abbiamo ricevuto in passato per Miyazaki. Quindi, almeno una cosa era già evidente.
Quale?
Che la base di riferimento si era allargata, e anche in modo consistente.
E su Perfect Days di Wim Wenders, invece, che dici?
Anche lì è andata molto bene. Le critiche sono state tutte fantastiche; talvolta, addirittura entusiaste. Forse è stata l’unione di diversi fattori, che hanno funzionato insieme.
Per esempio?
Per esempio la data e il premio vinto al Festival di Cannes. E forse anche l’assenza, per quel tipo di offerta, di altri competitor forti. Se guardi i risultati delle singole sale, vedrai dei numeri pazzeschi.
Lucky Red prova sempre a giocare di controprogrammazione rispetto agli altri distributori, e quest’estate è diventato particolarmente evidente. Mentre al cinema uscivano Barbie e Oppenheimer, voi puntavate su film italiani come La bella estate e film europei come Passages.
Ed è così. I nostri film, di solito, parlano a un pubblico piuttosto specializzato. Quando al cinema escono titoli più commerciali, tutti tendono a farsi da parte. Noi, invece, proviamo ad approfittare dello spazio che si crea. Il caso più eclatante che abbiamo avuto nella nostra storia è anche l’incasso più alto che abbiamo mai fatto. Uscimmo nelle sale il 1° gennaio del 2016 con Il piccolo principe, un film animato e tratto da un libro famoso, mentre era in programmazione Checco Zalone. E tutti ci dicevano la stessa cosa.
Ovvero?
“Siete pazzi a uscire contro Zalone”.
Alla fine, però, avete avuto ragione voi a insistere.
Non è possibile che tutti vadano a vedere un solo film; ci sarà per forza qualcuno interessato ad altro: a un altro tipo di storia o di linguaggio. E noi abbiamo puntato esattamente su quello.
Avete creato un’alternativa?
Ci abbiamo provato, sì. Abbiamo provato a raggiungere, trasversalmente, sia quelli che volevano vedere un film animato che quelli che amavano Il piccolo principe. E abbiamo provato a coinvolgere le famiglie con bambini.
Da Il piccolo principe siamo passati a Miyazaki. Ovviamente stanno avendo un percorso differente, ma hanno in comune una cosa: l’animazione. Secondo te, in Italia, si fatica ancora a puntare su questo tipo di linguaggio? Resiste un pregiudizio?
Certo che resiste. Ed è dovuto soprattutto a una mancanza di visione e di interesse. Pensa che la Rai, che è il nostro produttore più importante e che è pure la realtà con più obblighi di investimento nei confronti del cinema italiano e europeo, ha un mandato, per quanto riguarda l’animazione, solo con Rai Kids. Quindi se produce, produce unicamente contenuti per bambini. E invece è risaputo che l’animazione è apprezzata anche dagli adulti. Lo dimostrano i film della Pixar, della Disney, i tanti investimenti che fanno le piattaforme.
Non c’è nemmeno un dialogo su questa cosa?
Quando proviamo a parlarne con i broadcaster, ci rispondono che non hanno mandato per produrre lungometraggi animati. Punto. Che l’Italia sia rimasta indietro, per quanto riguarda le produzioni animate, è un fatto. Gli altri paesi sono enormemente più attivi e avanti di noi. La Spagna, per farti un esempio, è diventata molto importante per l’animazione. Per non parlare, poi, della Francia che lo è sempre stata e che ne è una grande esportatrice.
Voi state lavorando a Sono ancora vivo, il film animato diretto da Roberto Saviano e basato sull’omonimo fumetto pubblicato da Bao Publishing. A che punto siete?
Tra pochi giorni, credo, chiuderemo un accordo con il quarto co-produttore, che sarà francese. Al momento ci siamo noi e Mad Entertainment per l’Italia, GapBusters per il Belgio e SIPUR per Israele. Questo ribadisce piuttosto chiaramente quello che dicevo prima: bisogna lavorare fuori, all’estero, per portare avanti progetti simili.
Lucky Red è stata fondata nel 1987, quasi quarant’anni fa.
Mi gira la testa (ride, ndr).
Quante cose sono cambiate in questo periodo?
Be’, tante. È cambiato il mondo. Se parliamo della distribuzione, quando abbiamo cominciato c’era la free tv e il diritto principale era unicamente quello theatrical. Poi dopo qualche anno apparve la pay tv, le videocassette andarono in crisi e successivamente con i dvd ci fu un nuovo boom. Negli anni lo sfruttamento di un singolo film si è trasformato in modo incredibile.
In che modo?
Prima, si usciva puntualmente solo in alcune città. Dopo un po’ di tempo, si aggiungevano altre sale e si costruiva la comunicazione sulla risposta che il film aveva già ricevuto, e allora la comunicazione passava attraverso la carta stampata con i flani e gli estratti delle critiche. Almeno, ecco, noi ci muovevamo così, perché non potevamo permetterci gli stessi investimenti delle major. Potevamo fare una distribuzione capillare approfittando di ogni singolo momento e passaggio: da Roma andavi, per esempio, a Milano e da Milano andavi a Firenze. Non c’era Internet e la comunicazione era limitata.
Quando c’è stata la prima grande novità sotto questo punto di vista?
Quando i dati degli incassi hanno cominciato a essere pubblicati quasi in contemporanea rispetto all’uscita in sala, è diventato fondamentale fare un buon risultato il primo weekend, proprio per dare il via a un effetto domino.
Oggi, quindi, in che mondo ci troviamo?
Gli indipendenti si trovano in un mondo molto più articolato e complesso, dove lo sfruttamento dei diritti dei film è più frammentato. E la stessa cosa vale per la fase di acquisizione.
In che senso?
Nel senso che quando 01 Distribution e Medusa compravano i film stranieri, i prezzi andavano fuori mercato ed era molto difficile per noi trovare un prodotto commerciale. Oggi abbiamo la competizione delle piattaforme e delle major. Il mercato è più frammentato, e così le fonti di guadagno.
Il primo film che hai prodotto è stato L’amore molesto di Mario Martone. Sotto quel punto di vista, come produttore, che cos’è cambiato?
Essendo distributori di quindici, venti film ogni anno, abbiamo sviluppato una certa sensibilità nei confronti di quello che funziona e di quello che non funziona. A parole, lo so, è un concetto estremamente difficile da esprimere. Quando leggiamo una sceneggiatura o quando vediamo un film già finito, una delle spie che si devono accendere è quella che indica un certo coinvolgimento.
Come descriveresti questo “coinvolgimento”?
Pelle d’oca, emozione, trasporto. Anche rabbia. O irritazione. Deve farti dire: “cazzo, qui sta succedendo qualcosa”. Quello è un test sempre molto importante, perché ti pone nei panni dello spettatore. Il nostro approccio, negli anni, è stato quello di avere un gruppo allargato che fa questo tipo di valutazioni. Nelle scelte che abbiamo fatto, sia nella produzione che nella distribuzione, abbiamo provato ad andare oltre quello che potremmo definire come gusto personale.
Ed è facile?
Cerchiamo di far convivere, in ogni decisione, punti di vista diversi e sensibilità diverse. Ognuno di noi, dopotutto, ha film che ama e film che invece non apprezza pienamente. Discutiamo e ci confrontiamo in continuazione. Possiamo parlare dell’importanza di un film o anche del suo potenziale commerciale; non c’è mai una sola strada. Proviamo a rimanere aperti alle varie opportunità. È tutto un insieme.
E con il tempo, siete diventati anche esercenti.
Con Circuito Cinema, sì. Sono sale di – diciamo così – “qualità”. Ma sappiamo chiaramente che c’è una domanda precisa del pubblico e che tu devi essere pronto a soddisfarla durante tutto l’anno. E quando d’estate fai più fatica a trovare un film d’autore, bisogna proporre film più commerciali. Questo perché, come ti dicevo poco fa, non ci piace un’offerta a senso unico. E lo stesso vale anche per il pubblico, soprattutto se parliamo del pubblico cinematografico, che non vuole vedere solo un genere di film.
Secondo te, si tende a sottovalutare il pubblico?
Sì. Il problema principale, secondo me, è nella varietà dell’offerta: ci sono pochi editori. Se analizzi con attenzione chi è che dà luce verde alle produzioni italiane, scopri che sono pochi soggetti. E di solito sono legati alla televisione. Sono loro che decidono se un film si fa o non si fa. Ci possono essere delle eccezioni, come Ennio di Giuseppe Tornatore che è stato prodotto senza una televisione. Ma sono, appunto, eccezioni. La realtà è un’altra.
E questa realtà che effetto ha sul pubblico e sul modo in cui il pubblico viene preso in considerazione?
Avere pochi editori impoverisce l’offerta, e il punto di vista è limitato. Quando citiamo la Francia e parliamo della varietà dei film che producono, lo facciamo anche per questo. Perché hanno chiaramente più possibilità di costruire un’offerta più variegata: ogni produttore può cedere i vari diritti a realtà diverse, che sono distributori locali, esteri, pay tv, televisioni e così via, e può accedere ai fondi pubblici. In Francia, insomma, le possibilità di trovare finanziamenti sono decisamente superiori per chi produce. Negli anni, hanno costruito un sistema articolato che tutela la produzione indipendente. E i risultati si vedono.
In Italia, invece?
In Italia, visto il ruolo così decisivo delle realtà televisive e delle loro filiali, l’offerta è estremamente concentrata e poco variegata. E questo è un problema.
Resiste ancora il duopolio di Mediaset e Rai? Con l’arrivo di Vision, era stato messo in crisi. Ma ora, con le ultime notizie, sembra tornata a essere una partita a due.
L’ingresso di Vision ha rappresentato un momento importante: l’arrivo di un nuovo soggetto è stato uno degli eventi più interessanti degli ultimi anni. Penso comunque che resterà una partita a tre. Il problema, però, è che se il cinema italiano continuerà a essere prodotto e distribuito soprattutto da queste realtà, per gli altri sarà molto difficile finanziare progetti. Noi, per esempio, quest’anno rischiamo di non produrre nemmeno un film per il cinema. Ci è stato detto dalle varie televisioni che il budget del 2024 è stato già speso. E a me sembra assurdo che una società indipendente come Lucky Red non possa accedere a risorse per finanziare un film. Sicuramente il taglio del canone e il costo stellare di alcuni titoli non hanno aiutato.
Mi pare che il lavoro del produttore sia diventato, più che in passato, un lavoro di numeri e contabilità.
Per gli indipendenti è sempre stato così, ma oggi la situazione è chiaramente diversa. Come ti dicevo, con la frammentazione delle risorse bisogna coinvolgere più realtà e partner per riuscire ad assicurarsi il budget necessario per chiudere il finanziamento.
E le piattaforme streaming? Si sono ritirate?
Hanno ridotto il loro budget di investimento. Durante la pandemia c’è stata una vera e propria abbuffata da parte del pubblico, e la produzione di film e serie è aumentata in modo incredibile. Parallelamente, però, sono aumentate anche le piattaforme. A un certo punto hanno rallentato. Forse perché si sono rese conto che cominciavano a essere troppe e troppo costose rispetto agli abbonamenti e al pubblico di riferimento.
Che cosa succederà, adesso?
Qualcuno probabilmente non ce la farà e ci saranno delle fusioni. La cosa più paradossale, ora come ora, è che la major che sta facendo più profitti, Sony, è quella che non ha investito in piattaforme.
Sony, però, ha Crunchyroll, che è specializzata in anime.
Quella è un’eccezione. Perché parliamo di contenuti che hanno un loro pubblico di riferimento e che, al momento, vanno molto bene. Io mi riferivo a piattaforme con una programmazione più generalista.
È difficile rimanere indipendenti?
È molto difficile, sì. Chiaramente hai sia dei vantaggi che degli svantaggi.
Per esempio?
Per esempio sei libero, decidi tu che cosa fare e in che modo organizzarti. In più, puoi essere, se serve, estremamente rapido. Noi ci muoviamo molto velocemente sulle strategie da mettere in atto e sui progetti che ci interessano.
Che tipo di svantaggi ci sono?
In un mondo di gruppi che fanno continuamente accordi a monte, rischi di essere messo in svantaggio dalle dinamiche che si creano. Chiaramente più sei piccolo, meno peso riesci ad avere con le controparti. È anche vero che il gigantismo di alcuni di questi gruppi può creare dei problemi a loro stessi e al resto dell’ecosistema.
In che senso “problemi”?
Assorbono moltissime risorse per pochi titoli, ottengono finanziamenti pubblici che potrebbero essere usati in altro modo; hanno dei budget che semplicemente non sono giustificati rispetto ai mercati di riferimento. Bisogna stare attenti.
E rispetto agli altri mercati, quant’è più difficile rimanere indipendenti in Italia?
Molto, molto di più. Come in tanti altri campi, crescere è veramente complicato. Sono poche le realtà che ce l’hanno fatta o che sono state in grado di strutturarsi ulteriormente. Se un produttore non gestisce i diritti di ciò che produce, non potrà mai crescere. Il guadagno solo come “produttore esecutivo” non basta.
Sulla televisione e, più in generale, sul piccolo schermo come state andando?
In questo momento, proprio per il motivo che ti ho detto prima, siamo più attivi sulla televisione che sul cinema. Abbiamo prodotto un film, Elf me, e una serie, Gigolò per caso, che sono andate molto bene su Prime Video. In particolare Elf me, che è stato uno di quei prodotti locali che sono stati visti anche all’estero. Il 22 gennaio inizieremo le riprese di una serie per Rai1, Belcanto. Sarà diretta da Carmine Elia e avrà Vittoria Puccini come protagonista. Anche qui, abbiamo una co-produzione internazionale, con una partecipazione belga e un partner importante francese.
La partnership con Netflix, di cui distribuite i film, continua?
Non abbiamo nessuna esclusiva, però. Ci attiviamo quando ci propongono dei titoli da distribuire: li valutiamo caso per caso. Non c’è niente di prestabilito; non ci muoviamo su un determinato numero di titoli. È un dialogo aperto che va avanti in continuazione. Abbiamo un rapporto simile anche con altre piattaforme. Passages, che citavi prima, è di MUBI. In quel senso lì, siamo molto aperti e flessibili.
Una realtà che vi somiglia molto, come impostazione, è l’americana A24. Ci sono stati altri contatti tra di voi?
Past Lives, che uscirà il 14 febbraio, è di A24. In generale, diciamo ci sentiamo molto vicino a realtà come A24 e NEON. Abbiamo la stessa filosofia, e spesso condividiamo film e progetti.
Quanto sono importanti i contatti nel tuo lavoro?
A volte sono tutto. Nel corso degli anni, abbiamo distribuito film di grandi autori con grandi attori. E per noi è stato importante curare i rapporti con loro. Abbiamo sempre provato a stabilire un contatto diretto. Quando abbiamo distribuito i Coen, è stato bello ricevere i loro complimenti per il lavoro che avevamo fatto. Ma pensa anche a Miyazaki.
Dimmi.
Con lo Studio Ghibli, abbiamo un rapporto che va avanti dal 2004. Hanno notato che c’è una differenza tra quello che abbiamo fatto noi in Italia e quello che è stato fatto negli altri paesi europei. Dopo la Francia, siamo il mercato che sta andando meglio. Il tipo di lavoro che fai, il modo in cui valorizzi un titolo, sono cose che restano e che vengono notate e apprezzate. Ci siamo costruiti una reputazione su cui possiamo fare affidamento.
Mi pare che si faccia più gruppo fuori, all’estero, che in Italia.
Ma sai, forse è la nostra natura. Siamo fatti così. A volte, sappiamo essere estremamente individualisti. Si sente la mancanza di una visione condivisa o, se preferisci, si nota la difficoltà nel mettersi insieme e lavorare fianco a fianco.
In America, soprattutto negli ultimi anni, c’è stata una rinascita del film indipendente: quello che si contrappone alla mega-produzione ed è perfetto per festival come il Sundance. Credi che la stessa cosa possa succedere in Italia? Produzioni ridotte, low budget, con forti idee dietro e un’alternativa ai grandi budget dei grandi player. Anche come risposta alla bolla produttiva che è scoppiata.
Noi siamo un paese molto strano. Al di là del problema della bolla che ora si sta sgonfiando, da noi c’è anche un’instabilità dal punto di vista normativo che crea veramente molti problemi. In questo settore hai bisogno di programmare e pianificare; è importante soprattutto per le realtà più piccole, che vanno spesso alla ricerca di nuovi talenti e nuove voci. Ed è molto difficile programmare e pianificare se non sai con certezza – per esempio – quando aprirà la prossima finestra del tax credit. Adesso siamo tutti in attesa di sapere quali saranno i nuovi parametri.
E questo che cosa comporta?
Comporta un’ulteriore selezione e un’ulteriore scrematura. Di film, di opere prime, se ne continueranno a produrre, ma di meno. Chi ha talento, secondo me, ce la farà sempre a emergere. Riuscirci, però, sarà estremamente complicato.
A proposito di opere prime, voi ne avete prodotte diverse nel tempo. Ci sono progetti simili, ora, che state sviluppando?
Al momento stiamo valutando quattro possibili esordienti, sì.
Perché hai deciso di fare questo lavoro?
Il cinema mi ha sempre affascinato. In particolare, mi ha sempre affascinato un certo tipo di cinema. Sono stato uno spettatore appassionato di cineclub e cineforum. Come sai, io ho cominciato facendo l’attore. E dopo un po’ ho capito che non era la mia vocazione. In un certo senso, però, è stato un modo, un mezzo, per entrare nel cinema. Poi, ecco, lo sai come vanno le cose: sperimenti, provi, azzardi, e ti va bene. Capisci che lo sai fare. E ti trovi nel momento giusto al posto giusto, e determinati eventi, che pensavi impossibili, succedono.
Sei soddisfatto?
A me piace quello che faccio. Mi piace leggere una sceneggiatura, vedere un film e scoprire che c’è qualcosa di emozionante, qualcosa che ti dà un brivido e ti riempie di adrenalina. Ecco, quell’adrenalina è un buon motivo per fare questo lavoro. E poi ho avuto anche la fortuna di trovare compagni di ventura che hanno questa stessa aspirazione e questa stessa idea. Perché, ed è importante ribadirlo, non si può fare questo lavoro da soli.
Qual è stato il primo film che ti ha colpito come spettatore?
Lo so che suonerà un po’ pretenzioso, ma è stato Il settimo sigillo. L’ho visto in televisione quando ero piccolo, e ricordo che la scena della partita a scacchi mi angosciò molto. Mi fece paura. Crescendo e cominciando a frequentare i cineclub, un regista che mi colpì molto fu Buñuel: non sono mai stato un tipo da neorealismo, confesso. Poi, quando lessi il copione di Mujeres al borde de un ataque de nervios, presi una cotta per Almodóvar. E da allora ho sempre provato a lavorare con lui, ma non ci sono ancora riuscito.
Qual è stato, invece, l’ultimo film che ti ha colpito come spettatore?
Mi ha colpito molto Past Lives, e non perché lo distribuiamo noi; l'ho trovato veramente straordinario, soprattutto se pensi che è un debutto. Mi è piaciuto moltissimo Anatomia di una caduta. E mi è piaciuto anche quello che ha fatto Wenders con Perfect Days. Sono tornato a rivederlo in questi giorni; a Cannes l’avevo visto con altri occhi, più intenzionato a distribuirlo che altro, e ora l’ho potuto guardare con un’attenzione diversa.
E che cosa ti ha colpito?
L’ho trovato pacificante.
Perché?
Perché racconta la normalità, e noi abbiamo decisamente bisogno di normalità.