Andrea Camilleri: il suo siciliano non è solo un dialetto, ma un modo di vedere il mondo
Una questione “di cuore e di testa”: così Andrea Camilleri definiva il dialetto. La parlata siciliana tipica dei suoi romanzi ha dato non pochi problemi ai traduttori e ha trasformato molte parole in veri e propri segni distintivi della sua scrittura: basta pensare a “cabasisi” o a “babbiare”, un verbo che col tempo è addirittura entrato nel vocabolario italiano. Guardando al ricchissimo vocabolario “camilleriano” molte delle sue parole sono uniche: usate in circostanze particolari, o con significati diversi da quelli originari, o addirittura altre volte risultano semplicemente inventate. A più di una settimana dalla scomparsa del papà di Montalbano, ecco come la sua particolarissima idea di dialetto ha dato forma a Vigata, ai suoi abitanti, e alle storie che l’attraversano.
La lingua di Camilleri: un modo di vedere il mondo
La lingua di Camilleri è divenuta un vero e proprio caso di studio per i linguisti di tutto il mondo. I suoi romanzi, tradotti in circa trenta lingue, dal francese al tedesco fino al turco e al giapponese, hanno rappresentato una vera e propria sfida per gli addetti ai lavori: come rendere altrettanto viva ed evocativa la traduzione di un linguaggio che, usando le parole di Serge Quadruppani (il traduttore francese dei suoi romanzi) “non è solo un modo di parlare o di scrivere, ma è un modo di vedere il mondo”?
A moltissime parole dialettali Camilleri ha assegnato significati diversi da quelli comuni, reinventando letteralmente la lingua: e così una parola come “scatàscio”, peraltro presente anche in altri dialetti meridionali, cambia il suo significato da “guaio” a “gran fracasso”, seguendo la musicalità delle lettere piuttosto che la propria etimologia. Oppure, una parola come “annacare” si trasforma unendo due diversi significati: quello di “cullarsi” e quello, di origini catanesi, di “affrettarsi”. Prendersela con comodo, o anche liquidare velocemente: in entrambi i casi, per Camilleri, si tratta di un atteggiamento ambiguo.
Di molte parole non si conosce l’origine, come ad esempio con “calatina” (usata nel senso di “companatico”) o “erbaspada” (una particolare tipologia di erba di campo), mentre di molte altre si conosce un passato illustre: molte espressioni Camilleri le riprende da Luigi Pirandello o da Leonardo Sciascia, molto spesso cambiando il senso della parola ma lasciando inalterata la scrittura. È il caso di “chiarchiàro”, che per Sciascia rappresenta una “collina rocciosa piena di tane ed anfratti oscuri”: Camilleri ne amplia il significato, utilizzando questo nome come “soprannome ideale di uno iettatore”.
Lo scrittore di Porto Empedocle cita spessissimo Pirandello, utilizzando parole come “incatricchiato”, una particolare forma italianizzata del verbo “incatriculari”, ovvero “avvolgere”, o “bajardo”, parola che Camilleri usa per descrivere un cavallo ma che in realtà non ha nulla a che fare con l’universo equino.
Le "false" parole siciliane
Così “fagghiare” si trasforma, da verbo usato nel gioco delle carte col significato di “scartare” in “mancare”, scritto a volte come “fagliare”, oppure “amminchiare” va ad indicare testardaggine e cocciutaggine invece che semplicemente “stupidità”. Ma Camilleri ha anche disseminato molte “trappole” nei suoi testi: parole che sembrano siciliane, ma in realtà sono al cento per cento italiane, seppur molto molto antiche. Come il verbo “zirlare”, da cui deriva lo “zirlìo”, utilizzato già da Pirandello per indicare il verso degli uccelli: si tratta di una parola ormai caduta in disuso, di origine onomatopeica, che spesso viene utilizzata da Camilleri anche per indicare un’idea che fa scaturire un ragionamento più complesso.
Approfondendo l’origine di alcune parole scopriamo come Camilleri in realtà avesse una conoscenza molto profonda anche dell’italiano aulico: è da qui che nasce, ad esempio, il termine “mandillo”, che non è niente affatto un dialettismo. Si tratta di una parola attestata fin dal XIV secolo, derivata probabilmente dal greco o dall'arabo, che indica propriamente “il fazzoletto”. E che dire di “misirizzi”, una parola nata almeno nel XVII secolo e che ha sempre indicato quel particolare tipo di giocattolo che, se gettato a terra, resta sempre in piedi. Ovviamente nella sua straordinaria capacità letteraria, Camilleri utilizza spesso questa parola con un significato ben diverso: quello di un uomo politico furbo, che in qualunque situazione riesce a restare a galla.
Il dialetto per Camilleri: “La lingua degli affetti”
La lingua di Camilleri rappresenta un vero e proprio caso di “plurilinguismo” in cui convivono parlate fra le più diverse, che a loro volta creano letteralmente un’altra lingua. Non si deve confondere la parlata letteraria di Camilleri con il siciliano: sono due cose molto diverse. Anche se lo stesso Camilleri fu legato all'agrigentino, nei suoi libri palermitano, siciliano orientale e messinese convivono e si fondono molto spesso. Altre volte, le parole sembrano solo apparentemente appartenenti al dialetto ma in realtà hanno una storia ben diversa: tutto, rispondendo ad una precisa idea letteraria.
Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. A me con il dialetto, con la lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore.