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Alice nel paese delle Meraviglie compie 150 anni

Quest’anno ricorrono i 150 anni dalla pubblicazione di Alice’s Adventures in Wonderland, il capolavoro di Lewis Carroll. Il libro fu infatti pubblicato il ventisei novembre del 1865. Tuttavia, secondo la tradizione il libro fu inventato durante una gita in barca il 4 Luglio del 1862, Un assolato pomeriggio in tutto simile a quelli che stiamo vivendo anche noi in questa calda estate. Ripercorriamo la bellezza e la fortuna di questo grande classico.
A cura di Luca Marangolo
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The dream-child moving through a land
Of wonders wild and new,
In friendly chat with bird or beast—
And half believe it true.

È il mondo di Alice quello annunciato in questi versi del Pomeriggio d’oro, il poemetto che fa da prefazione a Alice nel paese delle Meraviglie, scritto dal reverendo Dodgeson meglio noto come Lewis Carroll, per le sorelline Alice, Edith e Lorina Liddell, con cui in un pomeriggio assolato del 1862 attraversava il fiume Tamigi nei dintorini di Oxford in barca, inventando storie pazze, talmente pazze che la stessa pazzia sarebbe stata diversa dopo quel pomeriggio d’oro. E  non a caso il Meriggio d’oro è anche il titolo della canzone che intonano le angeliche voci dei fiorellini parlanti che la piccola Alice incontra nel cartone di Walt Disney, fiori dotati di una malignità femminile che molto facilmente il fantasioso reverendo avrebbe potuto attribuire alle donne più grandi, ma non alle bimbe innocenti cui la sua immaginazione si ispirava.

Alice sta alla letteratura come la ruota di bicicletta di Duchamp sta alla scultura, con però  una carica

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estetica, eroticamente estetica, molto più forte. E sì che il timido reverendo, geniale scrittore grazie alla sua incredibile capacità di sublimare la realtà attraverso l’immaginazione, non aveva idea che sovrapporre logiche inconsce e consce nella terra franca della fiaba sapesse molto di più di Novecento letterario che non di Ottocento; che la pazzia delle mazze da croquet che sono fenicotteri e di altre incredibili invenzioni, e tutto l'assurdo della logica infantile  avrebbe poi fatto sdilinquire di piacere Breton e i suoi, diventando un manifesto adatto tanto ai dadaisti che ai surrealisti;  questo perché probabilmente la frase che coglie meglio lo spirito di Alice nel paese delle meraviglie l’ha inventata Virginia Woolf quando ha parlato di “un incubo per adulti” più che una fiaba per bambini.

Infatti il mondo di Alice è forse prima di tutto il frutto di quella profonda paura della conflittualità sociale che, come spiega Franco Moretti, è il vero lascito storico della cultura ottocentesca; Alice è pervasa dai più macabri incubi  angoscianti e perturbanti, presentati sotto forma di animali, piante e oggetti parlanti che spuntano sorridenti da un giardino color verde shocking; trasfigurazioni di merci che suggeriscono l’angoscia per gli oggetti che attanagliava la cultura borghese capitalista dell’Inghiliterra tardo-vittoriana.

E fra tutti i capolavori per l’infanzia della cultura tardo-vittoriana ed eduardiana è quello che gioca più a carte scoperte, è quello che esplicita in modo più potente il disperato bisogno di fuga incarnato anche dai mondi di Peter Pan, di Winnie The Puh,  il Vento fra i salici, del Mago di Oz (che per la precisione è statunitense); così come dal macabro mondo, tutt’altro che ludico, dei racconti di Kafka, anche loro pervasi, come le avventure di Alice, da una terribile paura degli oggetti, una paura inconscia che le cose inanimate possano prendere vita e aggredirci; una paura che  il filosofo italiano Giorgio Agamben descrisse in un capolavoro di critica letteraria ormai un po’ dimenticato dal titolo Stanze. La letteratura e il fantasma nella cultura occidentale.

Ma se la teoria del feticismo tanto freudiana quanto marxiana con le avventure di Alice potrebbe facilmente sbizzarrirsi, gli accoliti del reverendo Dodgeson non si fermano certo all’Ottocento e ai primi del Novecento;  il filosofo bergsoniano Gilles Deleuze  trasse negli anni sessanta anche un libro di logica-metafisica dal titolo Logica del Senso, ispirandosi al non-sense di Lewis Carroll per definire le strutture epistemologiche del suo sistema: in polemica con Husserl, in polemica con Merleau-Ponty e iniziando a forzare dall’interno, e di  molto, la teoria delle idee regolative di Immanuel Kant.  Fu, decisamente, un libro di rottura.

Quante cose insomma sono venute fuori da un’innocente passeggiata in inquietantissimi boschi narrativi di Alice,

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quante cose sono venute fuori dal cappello del cappellaio matto, il personaggio che nella trasposizione animata che tutti ricordiamo aveva cercato disperatamente di ‘riparare' l'orologio del bianconiglio, riempiendolo nell’ordine, di:  burro, marmellata, Té, e succo di limone e fermandosi a tempo a tempo dal metterci pure la senape: sarebbe stato troppo kitsch.  A quel punto, lo ricorderete, l’orologio prese vita e impazzì; pochi sanno (e la nostra fonte è l’eccellente glossario messo a punto nell’edizione Feltrinelli, con la versione tradotta magnificamente da Aldo Busi) che il cappellaio è definito matto perché era noto già all’epoca il fatto che il mercurio usato per fabbricare i cappelli  poteva creare gravi problemi neurologici. E pochi sanno che la fonte iconografica di quel personaggio fu un tale Theophilus Carter, un inventore che aveva presentato all’Esposizione Universale (sì, la stessa  manifestazione che si fa in questo periodo a Milano) un ritrovato talmente bisilacco da essere in perfetto stile Carroll: trattasi di un materasso sveglia che, quando suonava la sveglia, si rivoltava facendo cadere giù nell'acqua gelida il malcapitato dormiente.

In questo mondo di figure strane, un po’ inquietanti e un po’ divertenti o, come le chiama anche Carroll, Wonders wild and new, il baricentro dei significati scivola sempre via dai suoi significanti, cioè le parole non coincidono mai con le cose, così come i significati letterali si sovrappongono ai significati metaforici e viceversa.

L’esempio più clamoroso di questo meraviglioso fenomeno surrealista potrebbe essere il famoso Pool of Tears, cioé la scena iniziale in cui Alice insegue il coniglio bianco e si trova bloccata da una porta sbarrata, così beve una bottiglia per rimpicciolirsi ed entrare nel buco della serratura, però questa bottiglia ha l’effetto opposto e Alice diventa troppo grande; disperata, Alice  incomincia a piangere, prende un kin-glove del bianconiglio e, così, diventa minuscola; le sue lacrime si sono trasformate ora in un oceano, un oceano in cui nuotano  un topo dell'era di Guglielmo il conquistatore, un Dodo, un  Aquilotto e un Lorichetto (Non sfugga che dietro gli pseudonimi di Alice, il Dodo il Lorichetto e l'Aquilotto, Eagleth, ci sono proprio loro: Alice Liddell, Il reverendo Dodgeson, e le sorelle di Alice, Lorina e Edith).

Il mare di lacrime con cui Alice entra nel paese delle meraviglie è infatti una rappresentazione letterale di quello che piangere significa metaforicamente in tutte le fiabe. Quando nelle fiabe un bambino piange, è sempre perché c’è un ostacolo da superare; quando nelle fiabe un bambino piange è sempre perché alla base c’è il rifiuto di una rottura linguisitica, qualcosa che si sovrappone fra lui e lo svolgimento sereno degli eventi, dato che, come sa chi ama le fiabe, in una fiaba ogni cambiamento implica sempre una perdita, o una rottura inaccettabile dello scorrere degli eventi.

Questa nostra gaia passeggiatina nostalgica nel giardino dei paradossi di Alice non può non aver dimostrato quanto la scia di follia lasciata dal suo inventore sia stata lunga e prolifica, facendoci  pensare addirittura al  Novecento stesso come a un giardino attraversato da figure perturbanti e angoscianti; gli stessi incubi, gli stessi esorcismi raccontati con un timido sorriso sulla faccia a cui aveva dato forma sul finire dell’Ottocento un reverendo inglese passato alla storia  letteraria col nome di Lewis Carroll.

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