Alessio Arena: “Lo schwa non mi fa incazzare, la lingua è fatta dai parlanti”
Gli anni venti del Novecento, il nord del Cile e il sud del sud Italia. E poi il deserto, tantissimo deserto. Sono questi i luoghi, i simboli in cui si intrecciano i destini di Berto Macaluso e Gregorio Zafarone, protagonisti di Ninna nanna delle mosche (Fandango libri), il sesto romanzo di Alessio Arena. L'amore dissidente di un fornaio di Palmira e di un emigrante finito a estrarre il salnitro in una miniera cilena. Quando il primo riceve finalmente notizie del suo grande amore, lascia la moglie e la figlia e inizia un viaggio della speranza. Ninna nanna delle mosche è un libro corale anche negli argomenti che sceglie di trattare. Dentro c'è la storia di tanti: gli emigranti italiani, gli operai cileni, le città che oggi non esistono più, sommerse dalla sabbia del deserto, le donne forti della tradizione contadina, le maciare. Storie del sud del mondo. A Fanpage.it, lo scrittore presenta così il suo romanzo e le sue idee.
Ninna nanna delle mosche è il tuo sesto romanzo. Come lo hai costruito?
È stato il mio primo romanzo corale e non è stato facile. Dal punto di vista della scrittura è stato impegnativo e divertente, anche rispetto a una narrazione in prima persona e più distesa, come ho sempre fatto in precedenza. C'è anche una narrazione più intensa, a dispetto del fatto che questo è forse uno dei miei libri più brevi. La storia nasce da un racconto orale che ho raccolto personalmente a Iquique, questa città un po’ strana del nord del Cile, semisconosciuta. È una città che si trova con il deserto più arido del mondo alle spalle e con l’oceano davanti.
Come ci sei capitato a Iquique?
Mi ci sono ritrovato in una tournée. La mia unica tournée fatta in America Latina nel 2017. Appena si arriva a Iquique ti ritrovi una scultura che rappresenta una donna che è in groppa a una mula e che porta una bambina in grembo. Mi hanno raccontato che quella donna fosse italiana, partita all’inizio del secolo scorso, che fosse arrivata a Buenos Aires, dove attraccavano le navi che compivano la traversata dolorosa dall’Italia, per poi attraversare le Ande e arrivare a Iquique su questa mula. Questa donna proveniente dalla Lucania ha poi avuto una discendenza molto importante a Iquique, al punto che nel paese si festeggia “el dìa del emigrante lucano”. Io mi sono chiesto perché fosse scappata dall’Italia, da cosa scappasse. Così ho cercato, partendo da un anno, il 1927, di incastrare fatti storici e romanzati, accostando il nord del Cile al sud del sud Italia.
Nel 1927, anno in cui è ambientato il libro, Carlos Ibáñez del Campo sale al potere in Cile con un programma che persegue soprattutto gli omosessuali.
Fin dove il Governo arrivava nelle grandi città, era più difficile vivere la propria sessualità con libertà. Nei paesi più piccoli e lontani dagli apparati centrali, si viveva paradossalmente più liberi. E c’era – ma c’è ancora adesso – questa grande festa religiosa, la Vergine del Carmine, che porta tantissimi pellegrini in questo piccolo villaggio del deserto, Atacama. E questa Vergine, così come certe madonne di Napoli e della Campania, è segnalata come protettrice della diversità e delle identità dissidenti, soprattutto perché durante la loro festa si balla travestiti e mascherati e ci si può permettere in questi giorni – il 16 e il 17 luglio – un po’ di libertà rispetto al proprio sentire. Così, ho immaginato che la storia di un amore dissidente partisse proprio da dove è partita la donna della statua, dalla Lucania.
E da qui nasce la storia di Gregorio e Berto, gli unici della comunità lucana di Palmira che sanno leggere e scrivere. E che si innamorano.
La Lucania era terra di confino per gli omosessuali. Ce li mandavano i fascisti. E di Gregorio e di Berto ce ne sono stati tantissimi, silenziati dalla storia ufficiale. Tanti amori che io continuo a chiamare dissidenti, ma ovviamente sono dissidenti dalla prospettiva di tutto il resto della comunità.
Berto Macaluso e Gregorio Zafarone sono un po’ gli Ennis del Mar e Jack Twist di Brokeback Mountain?
Beh, un po’ sì. Sono genuinamente ‘queer’ questi due contadini ed è evidente che non hanno modelli di altri uomini omosessuali e sono associati ad altre identità alle loro comunità. L’uomo che non ama le donne è un uomo femminizzato, ma non è questo il caso per nessuno dei due. Uno fa il fornaio, l’altro si ritrova a lavorare nelle miniere di salnitro.
Ninna nanna delle mosche può essere qualcosa di più: una serie tv o magari un film?
Beh, mi farebbe molto piacere. Il film “Ninna nanna delle mosche” mi piacerebbe comunque vederlo da spettatore, anche se già penso a strategie possibili, location, posti dove girare perché poi il vero protagonista di questo romanzo, per me, è il deserto.
Dove si potrebbe girare?
Penso al viaggio che ho fatto a ritroso, da Iquique fino a Palmira, questo piccolo villaggio che oggi si chiama Oppido Lucano. Nell’arsura di agosto, mi sono ritrovato in questi campi di grano, in questo giallo perenne e perpetuo che mi ha fatto ricordare il deserto. Si potrebbe evitare di andare fino in Cile, che tra l’altro come sempre sta vivendo periodi di grandi tumulti sociali e politici, e stare lì in quel fantastico luogo. A parte questo, non sono arrivato a scrivere un film, sarebbe bellissimo. Per presentare questo libro ho messo su un recital che, al di là della parola scritta, cerca di trasformare la storia in canzoni con l’ausilio dell’audiovisivo. Ho raccolto documenti storici, recuperato filmati di un documentarista incredibile, Luigi Di Gianni, che ho usato anche per la stesura del libro. Soprattutto “Magia Lucana”.
Le donne principali di questo romanzo, Dorotea e Serafina, sembrano donne contemporanee, donne al centro di una tensione anche di genere, come quella che stiamo vivendo oggi. Mi sbaglio?
Evidentemente scrivere un romanzo che ha una minima ambizione di ricostruzione storica o comunque è ambientato in un’altra epoca, viene comunque scritto da una prospettiva contemporanea. In realtà, però, l’ho fatto anche per raccontare che di donne avventurose, protagoniste, centrali per un sistema di condivisione sociale, come la vita contadina, sono sempre esistite. Sono donne con potere, come le maciare. Nel romanzo vediamo prima Donna Assunta e poi la figlioccia adottata Serafina rappresentano un po’ la scienza: dove non arrivano i medici, c’è sempre la donna dai saperi ancestrali che può tanto scacciare il malocchio da una causa o guarire un mal di testa o qualsiasi acciacco dei membri della sua comunità. Serafina, poi, ha la capacità di questo incantamento, di ridare il sonno ai bambini che non ce l’hanno. Su quello che sta succedendo ora, ci sono paradigmi che vengono scandagliati e che vengono scossi, che si stanno mettendo seriamente in discussione, si stanno negando. Si parla di cose che prima non erano tema di dibattito perché si faceva affidamento a questi modelli del ruolo dell’uomo, del ruolo della donna che avevano creato un certo equilibrio chiaramente “squilibratissimo” su cui si basa la famiglia occidentale. Viviamo un momento di cambiamenti molto profondi e questa tensione è forse qualcosa di più. In Italia è più esacerbata, su certi aspetti siamo molto più lenti.
Sull’inclusione nella parola scritta: cosa pensi dello schwa?
Non mi fa incazzare. Non mi sento tradito né preso in giro. Non sono un purista della lingua, sono insegnante di lingua e letteratura spagnola alle superiori qui in Spagna, da pochissimo in realtà. Però, quello che cerco di insegnare, quello che poi ho capito nei miei anni da studente, è che la lingua è sempre qualcosa di vivo e che la fanno i parlanti, non gli accademici e tantomeno i dizionari. La lingua è in continua evoluzione e deve rispondere del cambiamento della società. E se questa società sta andando in questa direzione, è giusto cambiare. Capisco che non piaccia, però non comprendo per esempio la polemica che fanno tanti scrittori, tanti operatori della comunicazione.
In Spagna cosa si usa?
Qui, dove ancora si usa il plurale maschile per tutti e per tutte, per arrivare a una sorta di “pareggio” si usa il “care e cari”. Però, come vedi, c’è bisogno di più spazio anche sulla carta perché ci si allunga…
Parliamo del processo di scrittura. Come avviene?
Leggendo. Poi, non sono uno scrittore di inizio secolo scorso che fa solo quello. Si romanticizza molto questa cosa del mettersi a scrivere. Io vivo in una vita frenetica, lavoro tutto il giorno immerso in epifanie quotidiane, drammi quotidiani, storie lette, raccontate, vissute. Non smetto mai di leggere, di scrivere o comunque di pensare a quello che scriverò. E più che scrivere mi piace tutta la biblioteca che si improvvisa attorno al libro che stai scrivendo, creare vincoli tra libri, storie che hai raccolto in diversi posti e scoprire scrittrici e scrittori che non conoscevi.
A proposito, qual è stata la biblioteca che hai costruito intorno a Ninna nanna delle mosche?
Sicuramente Ernesto De Martino con “Sud e magia”, che ho tenuto molto presente come studio antropologico e scientifico su quella realtà che ho raccontato in un altro modo e in un altro stile. Poi c’è uno scrittore molto amato dal pubblico cileno, ma sempre snobbato dall’accademia. Si chiama Hernán Rivera Letelier, tradotto anche da Guanda e Mondadori, ma sembra un po’ sparito dai radar italiani. Molti dei suoi romanzi e dei suoi racconti sono ambientati in quel deserto cileno, in quelle officine di salnitro. Ha vissuto in città che oggi non esistono più, che sono sommerse dal deserto. Poi c’è uno scrittore sardo che a me piace moltissimo, Salvatore Niffoi, che è molto vicino a quello che a me piace fare, una narrazione magica che a me piace molto più rispetto a certe letterature ispano-americane più titolate. Quel tipo di narrazione un po’ magica esiste anche nella nostra tradizione orale. Io sono nato e cresciuto vicino a una donna analfabeta, mia nonna, ed è stata lei a farmi diventare scrittore.
Su Pangea ho letto una bella recensione di Antonio Coda che ha scritto di Ninna nanna delle mosche come "il romanzo-romanzo di Alessio Arena". Me lo confermi?
Non posso perché altrimenti non mi sentirei in grado di scrivere più altro. Penso che c’è un vastissimo pubblico che non mi conosce ancora o che magari non conosce ancora i libri precedenti. Allora dirò sempre a tutti di leggere l’ultimo libro che ho scritto che è la traccia più prossima di me stesso. Essendo anche un cantautore, è una cosa che consiglio anche dal punto di vista musicale. A volte nei concerti mi ritrovo a cantare pezzi che ho scritto a 23 anni, quando oggi ne ho 37. Ed è come fare il sommozzatore, vado a sommergermi in una parte di me che ormai fa parte di un album di famiglia già polveroso. Cose che magari sono rappresentative di un artista che non sento più di essere. Per questo, il mio romanzo-romanzo sarà sempre l’ultimo che ho scritto.