Alessandro Cattelan: “Mi esibisco da morto così nessuno può parlar male di me”
Alessandro Cattelan sta invitando tutti al proprio funerale celebrato nei teatri italiani. Si chiama "Salutava sempre" il One man show che il conduttore tv e radio sta portando in giro per il Paese. Partendo dalla propria morte, quindi schermandosi delle belle parole che sono quasi obbligatorie in questi momenti, Cattelan ragiona e gioca sull'attualità mescolando stand up comedy – tra l'altro ad aprire i suoi spettacoli saranno Stefano Rapone, Salvo di Paola e Yoko Yamada – e show musicale in cui il conduttore rappa, canta, recita e si esprime sul mondo senza più il problema di dover piacere o, meglio, non dispiacere a qualcuno. A Fanpage.it Cattelan racconta della sua passione per morte e cimiteri, di cosa vedremo a teatro – lo spettacolo sarà ancora a Roma il 4 dicembre, Napoli il 7, Firenze l'8, Padova il 10 e chiuderà a Bologna l’11 – ma anche della sua nuova casa editrice Accento.
La morte è uno dei più grandi tabù del nostro tempo, che tu hai deciso di affrontare di petto.
È un espediente, perché quello della morte mi sembrava il contesto più sicuro dal quale poter parlare alle persone ed essere più più sincero. Quando sei morto ti amano all'improvviso tutti, diventi più rispettabile, più intelligente, molto più di quello che venivi considerato in vita. C'è sempre questa cosa per cui non si può parlar male dei morti: mi pongo nella condizione di morto così nessuno può parlar male di me, di quello che faccio, di quello che dico. È una tematica che mi ha sempre stuzzicato: il primo programma che ho scritto nella mia vita è stato Lazarus, insieme a Francesco Mandelli, in cui facevamo questo viaggio in America, nei cimiteri, alla ricerca dei posti in cui sono morte le grandi icone pop. In qualunque viaggio faccia, una delle prime cose che vado a visitare, se ho un po' di tempo, è il cimitero della città.
Insomma, una vera e propria passione…
Pensa che quando ero piccolo amavo tantissimo andare con mia nonna al cimitero. Lei sistemava la tomba e mi mandava a fare delle piccole commissioni, tipo prendere l'acqua da mettere nell'annaffiatoio e c'era un po' questo senso di avventura. Poi ricordo che c'era questa bambina che probabilmente era morta vent'anni prima di me ma nella foto della tomba era immortalata da bambina, quando aveva la mia età, e io ne ero quasi come innamorato, quindi io andavo al cimitero, andavo a trovare i miei nonni, ma andavo anche sempre a trovare quella bambina lì. È un argomento, quello della morte, che mi ha sempre affascinato.
Ti fa paura?
Ne ho paura nella misura in cui mi dispiacerebbe morire, però credo che la morte in genere sia un pezzo della vita, l'unica certezza che abbiamo. Eppure, dopo migliaia di anni e di civiltà, ancora non siamo riusciti ad averci un rapporto sano.
Come è accolta questa cosa che vai da morto sul palco, con una bara in scena? A Napoli siamo scaramantici…
Ci sono dei momenti che per adesso stanno funzionando ma proprio l'altra sera, andando a dormire, mi chiedevo: chissà se Napoli lo accetterà? Ci sono momenti di interazione col pubblico che riguardano un po' il momento della morte, della lapide, della bara, chissà se lì saranno più scaramantici…
A proposito di scambi col pubblico: quanto c'è di canovaccio, di scritto e di improvvisato nello spettacolo?
C'è tanto di pensato. C'è un pezzo in cui io parlo del mio repertorio, che è inesistente, ho fatto televisione ma non ho sviluppato un repertorio vero e proprio: non ho cose alle quali so che mi posso aggrappare o che la gente si aspetta da me e questo è stato il primo motivo di ansia nelle settimane precedenti all'inizio, perché non sapevo che cosa la gente avrebbe voluto e si sarebbe aspettata di vedere. Di sicuro volevo fare qualcosa di diverso da tutto quello che esisteva, proprio perché temevo di non reggere i singoli paragoni: se avessi fatto uno spettacolo serio non sarei riuscito a farlo come quelli che lo sanno fare bene, fare uno stand up comico? Non sono uno standuppista. Uno show musicale? Non sono un cantante, ma non sono neanche un ballerino. Però ho provato a mischiare tutte queste cose, per questo c'è molto pensiero dietro e secondo me è proprio uno show vero e proprio perché ci sono tanti appuntamenti precisi, prefissati, che succedono nel momento giusto.
E l'improvvisazione teatrale?
All'inizio pensavo che sarei stato molto più aderente a quello che era stato preparato, però quando entri, dici una cosa e vedi che la gente ride ti tranquillizzi. Credo che la mia caratteristica principale sia un po' anche la velocità di contraccolpo e di reazione alle cose. Perciò, nel momento in cui dico una cosa che avevo preparato, in base a come risponde la gente subentra l'improvvisazione e sporchi di bello quello che hai preparato vede appunto.
Quindi non ti spaventava la risposta in diretta del pubblico in sala?
Quella è la cosa che mi dà più agio di tutte, nel senso che quella cosa la sento proprio mia. Interagire e improvvisare con una persona è quello che faccio in televisione e in radio tutti i giorni. In radio parlo al telefono con gente che non ho mai visto prima, non so chi è, cosa fa, non so niente, però ne caviamo fuori qualcosa di buono. Per questo la prima interazione col pubblico ho cercato di metterla abbastanza presto, non sapendo come avrebbe reagito sulla parte di stand up mi sono detto che almeno avevo il mio primo rifugio sicuro, e se chiamo qualcuno sul palco so che ne esco fuori bene, viene fuori qualcosa di divertente, quindi in realtà per me il fatto di avere il pubblico davanti, in quel modo lì, è proprio un rifugio.
Nessuna paura che il pubblico potesse non ridere, quindi.
Ce l'avevo tantissimo e continuerò ad averla anche perché la geografia un po' conta, ci sono cose che fanno più ridere in un posto, meno in un altro, quindi questa cosa mi accompagnerà fino alla fine. Mi terrorizzava anche perché di carattere sono uno che se dice una cosa e non fa ridere, inizio a volerne uscire più velocemente possibile quindi inizio a parlare ancora più veloce di quanto faccia normalmente. Avevo un po' questa ansia ma è migliorata già durante la prima: inizio a parlare da fuori al palco e la prima cosa che dico, che non è neanche tra le venti migliori battute dello spettacolo, fa ridere tutti e quando li ho sentiti ridere su quella cosa mi sono rilassato e detto: vabbè dai, allora da qui in poi sarà in discesa.
Come nascono i pezzi rap?
Dico sempre che "Broccoletti" è la mia Albachiara, la canzone con cui chiudere gli show. L'altra, che è la sigla d'apertura, è un pezzo rap vero, l'abbiamo scritto insieme io, Mike Lennon, Roofio dei Two Fingerz e Shade, abbiamo fatto una produzione seria, vera e ho fatto anche anche questa cosa.
C'è un pezzo dedicato ai social, continui ad averci ancora una relazione complicata…
C'è tutta una parte dedicata ai social, anche perché ormai sono il principale canale di comunicazione tra le persone: ne parlo sia in relazione ai figli, quindi dal punto di vista dei genitori con i figli, sia da utilizzatore che da marito. Ti dirò, io non ho ancora capito bene che cosa farmene, cioè, mi servono tanto per lavoro, sono un ottimo canale, mi ci diverto anche, li userei anche di più se vedessi che le reazioni delle persone fossero più moderate, in un senso o nell'altro, invece sui social c'è questa cosa che a me disturba, la polarizzazione estrema: o sei un genio totale o sei il peggiore figlio di puttana della storia del pianeta e queste esasperazioni mi disturbano un po', quindi li userei di più se ci fosse un po' più moderazione, ma se ci fosse più moderazione probabilmente non avrebbero così tanto successo, visto che parte di quel successo viene anche dallo strillarsi cose addosso. Insomma, li uso quando mi servono, mi fanno molto ridere, trovo che siano appunto un pozzo di ispirazione per quanto sono ridicoli.
Cosa direbbe il più importante critico televisivo alla morte di Cattelan?
Una volta che sono morto dirà che si è spenta la più grande promessa… (si interrompe). Ma poi io devo dire che con la critica ho un buon rapporto, non è spietata nei miei confronti. C'è chi evidentemente non mi ama, ma di quelli saprei dirti che cosa scriveranno fin dal giorno prima di uno spettacolo, sono cose che hanno già deciso, ma c'è anche chi mi tratta bene, a volte leggo anche dei complimenti che mi sembrano perfino esagerati, però di base ho un buon rapporto con la critica. Di sicuro, una volta che muori, il pensiero di tutti sarà unanimemente verso l'alto, nessuno si prende la briga di parlare male.
Visto che ti avanzava fuori tempo, hai creato anche una casa editrice. Mi sembra che hai capito che bisogna costruire attorno alle parole passione, ci riesci veramente?
Sì, anche se ho sbagliato completamente i tempi, ma non so se ci sarebbe mai stato un tempo giusto. Tra televisione, teatro, radio, ora anche la casa editrice, sono obbligato a fare quel lavoro di ufficio che mai nella vita avrei voluto fare, però l'ho fatto consapevolmente, siamo molto felici, sta andando molto bene, ed è una cosa costruita intorno alle mie passioni. Sai, una cosa che molti fanno quando magari vogliono provare un'avventura imprenditoriale è aprire un ristorante. Servono capacità, conoscenze, non basta che ti piaccia mangiare per aprire un ristorante. Dal punto di vista della lettura, invece, negli anni, mi sono reso conto di aver sviluppato un gusto, di averlo messo a disposizione di chi mi segue sui social, di aver visto che c'è questo gusto comune tra me e chi mi segue e quindi mi sento di garantire su quello che pubblico, garantisco che sono cose che a chi mi ha seguito negli anni potranno piacere.
Cosa pubblicate?
È una casa editrice che non pubblica tutto, un po' perché non ne abbiamo la possibilità, un po' perché non è questa la volontà. Vogliamo pubblicare cose selezionate che ci convincano tutti, non solo me, ma anche le altre persone del team e che quindi possiamo proporre senza pensare di ingannare nessuno. Sono proposte genuine e siamo convinti che siano belle. È appena uscita, l'antologia "Quasi di nascosto. 12 NUOVI AUTORI SOTTO I 25" che doveva essere il tutto della casa editrice.
In che senso?
Ero partito con questa idea della casa editrice, pensandola per giovani under 25. Poi ci siamo resi conto che essere giovani non è un valore di per sé, non vuol dire niente e quindi abbiamo deciso di virare sugli esordienti. Quindi oggi pubblichiamo scrittori che fino a ora non ha ancora avuto la possibilità di far sentire le proprie storie. Però questa cosa degli under 25 ormai c'era entrata in testa, negli anni 80 Vittorio Tondelli aveva fatto un progetto molto bello, proprio legato alle storie (si chiama Under 25, ndr). Aveva 30 anni e aveva già cominciato a chiedersi cosa pensassero i giovani perché si era già reso conto che a trent'anni non faceva più parte di questa categoria, così ha pensato a questa raccolta molto bella per capire di cosa scrivessero i giovani, cosa pensassero, cosa li facesse arrabbiare, sognare, gioire e ispirandoci un po' a quello spirito abbiamo messo insieme questi dodici autori, dopo averne letti più di 400 autori e siamo arrivati a selezionarne dodici che hanno costituito questa prima antologia.
Riesci ancora a leggere con tutti gli impegni che hai in questo periodo?
Adesso non sto leggendo, non ho proprio tempo, sono svuotato mentalmente. Io sono uno di quelli che legge in qualunque contesto: leggo mentre sono in coda, a casa, quando viaggio, sui mezzi, prima di andare a dormire, insomma leggo in qualunque momento, ma in questo periodo arrivo a casa prosciugato e quindi non sto leggendo niente. E quel poco che riesco a leggere sono le proposte che arrivano.
Ne arrivano tante?
Da quando abbiamo aperto il profilo Instagram e il sito, sono arrivate centinaia di proposte di cui ovviamente il 99% non ha alcun senso né motivo di essere, però abbiamo trovato un paio di cose interessanti che usciranno probabilmente nei prossimi mesi, a cui stiamo lavorando. Qualche cosa di molto bello lo trovi, ma quel poco che riesco a leggere adesso, è tutto per la casa editrice.