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Alessandro Baricco: “Con i Classici parlo di guerra, per contrastarla dobbiamo far girare le parole”

Alessandro Baricco porterà al Festival TaoBuk il suo spettacolo “Tucidide. Atene contro Melo” in cui lo scrittore racconterà la guerra. A Fanpage, Baricco parla di attualità, guerra, Letteratura, della sua vita e del rapporto con la Critica.
A cura di Francesco Raiola
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Alessandro Baricco (ph Anna La Naia)
Alessandro Baricco (ph Anna La Naia)

Alessandro Baricco è uno degli intellettuali che ha maggiormente avuto un peso sulla Storia Culturale d'Italia. Amato, letto e seguito da migliaia di persone, non si è mai sottratto agli scontri con i critici che lo hanno colpito negli anni, mettendosi sempre in discussione e in gioco guardando all'attualità. Questa volta lo scrittore piemontese torna con uno spettacolo, Tucidide. Atene contro Melo (i biglietti sono in prevendita su Ticketone), tratto dal Libro V de La guerra del Peloponneso e lo fa tornando per la prima volta, dopo la malattia, sul palco del Teatro antico di Taormina per la XIV edizione di Taobuk – festival ideato e diretto da Antonella Ferrara – che si terrà domenica 23 giugno alle 21. Lo scrittore – che è autore e regista dello spettacolo – sarà affiancato dalle attrici Stefania Rocca e Valeria Solarino, che danno rispettivamente voce agli Ateniesi e ai Melii, mentre il racconto sarà accompagnato dai 100 Cellos, ensemble di violoncellisti fondato e diretto da Enrico Melozzi e Giovanni Sollima, il quale ha composto anche le musiche originali. A Fanpage Baricco ha parlato di guerra, di come i Classici raccontino anche l'attualità, della sua salute, del ruolo dell'intellettuale, della voglia di capire la complessità e anche delle lunghe battaglie con critici del calibro di Giulio Ferroni, Pietro Citati e Giovanni Raboni.

La prima domanda sarà l'unica che ti farò riguardo la tua salute: come stai?

Bene, bene, sto sempre un pochino meglio, è un cammino lungo, ma per adesso è rettilineo, sempre in una direzione di miglioramento, quindi bisogna aver pazienza, però faccio una vita che mi piace e che mi godo, per adesso.

“Tucidide. Atene contro Melo” è un pezzo del libro V de La guerra del Peloponneso di Tucidide. Come mai oggi questo tema è così importante e attuale?

In generale, quel libro, La guerra del Peloponneso, è per noi un libro mitico, in parte perché fonda proprio il concetto di Storia con la S maiuscola, è il mestiere dello storico, quindi per la nostra tradizione occidentale è un po' l'apertura di una possibilità di lettura del mondo. Erodoto, prima, faceva una cosa un po' diversa, raccoglieva quello che si diceva, il gossip mondiale. Poi ovviamente in quel passaggio ci sono un sacco di temi legati non a quella guerra ma a qualsiasi guerra che sono sempre e purtroppo attuali perché la guerra è una cosa molto rudimentale e poco sofisticata quindi i suoi meccanismi non sono poi molto cambiati nel tempo.

Una delle prime battute dei consiglieri di Meli agli ateniesi dice: “Se, come è naturale, noi avremo la meglio in difesa del diritto e perciò non cederemo, ci porterà la guerra, mentre se saremo persuasi ci porterà la schiavitù”. Quindi non abbiamo via di scampo: laddove il potente decide di attaccare, non c'è possibilità di salvezza, no?

In particolare, in questo episodio della guerra del Peloponneso casualmente – io ci lavoro da anni -, il tema è molto d'attualità, perché lì il punto è che c'è un'isola, Melo, che vorrebbe sfilarsi via da questa sorta di guerra mondiale che era la guerra del Peloponneso, volevano diventare neutrali e questo, in generale, conserva la memoria di quelli che non ci starebbero alle logiche della guerra, ma vorrebbero sfilarsi via. Di fronte a questa cosa, Atene, essendo una grande potenza, non può accettare questo tipo di scelta perché le grandi potenze fanno del dominio il combustibile della loro esistenza quotidiana e quindi capiscono che se concedono questo privilegio della neutralità a un'isola, poi ci sarà un effetto domino devastante per loro, cioè un sacco di altre isole cominceranno a chiederla. Loro avevano un impero fondato soprattutto sul controllo di moltissime isole nell'Egeo, e quindi intervengono, assediano Melo e prima di cancellarla dalla faccia della terra mandano degli ambasciatori a discutere se c'è un modo meno rovinoso di risolvere la faccenda. E questo incontro di ambasciatori, Tucidide lo scrive, incredibilmente, come se fosse una pièce teatrale, come se fosse stato presente, cosa che invece è pressoché impossibile, quindi è un po' misterioso questo passo, però è molto avvincente. Da anni avevo questo desiderio di farne una pièce teatrale e sebbene alla fine non ne abbia fatto esattamente una pièce teatrale, ne ho fatto, comunque, uno spettacolo.

In cosa questo testo può farci riflettere sulle guerre di oggi e in particolare su due guerre che da anni sono vicine a noi: Russia Ucraina e Israele Palestina? Qual è l'attualità attuale di questa di questo dialogo?

L'esempio è incredibilmente vicino alla situazione Ucraina e Russia perché anche lì si tratta praticamente di una comunità che sta nell'orbita geopolitica di un impero e che tenta invece di sfilarsi mentre l'impero va a riprendersela in qualche modo, quindi è quasi letterale. La situazione di Gaza e di Israele è molto più complessa: anche lì i paralleli sono sempre con la realtà, spesso mi sono chiesto: ma se io fossi stato israeliano sarei riuscito a rimanere uomo di pace, quale sono in una realtà più semplice come quella dell'Italia di oggi, anche se non è sempre così semplice? E se vuoi, la domanda che c'è dietro è: ma è possibile sfilarsi via dalla logica aberrante della guerra se sei sei preso così vicino da questa? Una delle soluzioni che abbiamo, davanti a questi problemi veramente complessi, è continuare a far girare quasi in maniera rituale le parole e le riflessioni sia dei padri sia dei maestri attuali. Questo spettacolo è recente, però ho fatto una lezione su questo tema per molti anni e ogni volta che mi mettevo lì a leggere queste righe eccetera, mi è sempre sembrata una specie di cerimonia rituale, collettiva, e adesso con lo spettacolo, che portiamo in grandi teatri, diventa proprio una specie di diritto e questa è una delle cose che noi possiamo fare: far girare le parole, far girare le parole, far girare le parole in modo che non esistano solo i fatti dell'odio.

Con te ci saranno due attrici (Stefania Rocca e Valeria Solarino) e i 100Cellos, cosa succederà sul palco?

Il primo frammento di idea è stato quello di lavorare con Giovanni Sollima e con i 100Cellos perché volevo una base musicale molto forte e i violoncelli per me sono, innanzitutto, una scenografia semplice: se tu lo vedi con un certo occhio, il violoncello sembra veramente un elmo, un'armatura o un'arma, l'archetto sembra una freccia, eccetera. Me li son visti proprio come una sorta di scenografia: tanti, compatti come in una falange, ordinatissima e in più c'è il loro suono, che è un suono molto particolare, perché il violoncello è uno strumento con molti registri, quindi può suonare dal basso ai suoni piuttosto alti e quindi permette molta escursioni, però ha un suo colore che mi sembrava il colore adatto a questo tipo di parole e di riflessione. E poi da lì bisognava comunque incarnare i Meli e gli Ateniesi e ho scelto queste due attrici. È una cosa che viene da lontano per me perché quando io metto in scena questi eroi greci o questi personaggi così alti non mi riesce mai di pensare ad attori maschi.

Come mai?

Perché tanto gli attori maschi non saranno mai all'altezza, saranno sempre un po' ridicoli oppure finiscono per fare troppo gli eroi o un po' i maschilisti in alcune occasioni infelici. Se invece scegli un certo tipo di attrice come sono Valeria e Stefania, cioè attrici con un corpo e una voce scura, più dura, diciamo, con una bellezza che se ne va un po' in giro tra i generi, tutto si trasferisce in un mondo di immaginazione e allora io riesco a sentire quelle parole e mi sembrano molto credibili. Poi ci sono io che narro questa vicenda e mentre loro fanno le parti io ogni tanto le commento. Lo spettacolo dura un'ora e un quarto. È molto emozionante, l'abbiamo fatto al Festival di Spoleto lo scorso anno.

Tu eri sul palco?

No, non potevo farlo perché non stavo bene, sono andato, ho fatto la regia, però non mi fidavo tanto a salire sul palco e mi sono fatto sostituire da Gabriele Vacis, scrivendogli la parte, lui l'ha letta, è stato molto bravo, e l'emozione è stata enorme lì, in quel momento.

Quello al Taobuk di Taormina sarà il primo spettacolo che farai sul palco, quindi?

Sì, sono molto felice di farlo sul palcoscenico perché era il mio sogno e oggi riesco a realizzarlo. Oggi non ho problemi a salire sul palco e a stare là sopra per quel tempo e a fare quello che devo fare. Io non sono uno che prova molto, perché il primo a meravigliarsi di quello che faccio e dico devo essere io, se no non funziona. Quindi proverò con loro perché ci sono molti agganci musicali eccetera, è anche un po' che non leggo e non parlo di questo tema, sarà tutto molto nuovo, forse diverso. Sono sicuro che sarà molto emozionante per me e sono sicuro che lo sarà anche per il pubblico. È strano perché poi uno può pensare "Vabbè Tucidide", poi alla fine si parla comunque di Storia, invece si possono smuovere dei volumi interni di anima con queste storie che uno non ci crede.

Ti faccio una domanda enorme e forse un po’ banale, ma visto il tema che stiamo trattando e quelli che hai trattato negli anni forse ha senso: qual è il ruolo dell’intellettuale oggi? E chi possiamo definire intellettuale con gli schemi di oggi?

C'è stato un periodo in cui l'intellettuale proprio non era di moda, darti dell'intellettuale era quasi un insulto. Per fortuna quel periodo è passato e alla fine per me un intellettuale oggi è uno che ha studiato molto: una minoranza di quelli che hanno studiato molto sono in grado anche di raccontare bene quello che hanno studiato e tutti gli altri hanno la funzione di portare comunque quello che hanno studiato in forma di libro, di studio accademico e, in generale, alla luce del sole. Diciamo che in un periodo in cui le narrazioni, anche quelle un po' più rozze, hanno preso grande potenza, grande forza, il lavoro dell'intellettuale in primis, proprio come narratore, è diventato molto importante, ma mi sembra che sia di nuovo abbastanza rispettato, non si può dire che non lo siamo, assolutamente. Certo, dobbiamo essere coraggiosi, molto liberi, molto indipendenti, però è un periodo storico in cui abbiamo grandi chance di lasciare sul campo dei valori veri, e di fare la nostra parte. Ci sono quelli che fanno il pane, quelli che operano in sala chirurgica e ci sono quelli che hanno tanto studiato. Soprattutto quando riescono a mantenere la calma e a mantenere sotto un certo livello di guardia il narcisismo, gli intellettuali sono molto utili, ne abbiamo un gran bisogno. Nella mia vita, i maestri che ho avuto sono stati di una enorme importanza.

Ti consideri Maestro anche tu, a tua volta?

Quanto meno nel piccolo della mia scuola – dico "mia" ma è di tanti -, la Holden, sì, perché in trent'anni è stato comunque anche un po' il giardino in cui ho seminato molte idee che poi sono germogliate nei miei allievi, quindi in quella fase circoscritta sicuramente sono stato e continuo a essere Maestro. Poi c'è quest'altro modo, molto bello ma più difficile da capire, ovvero che gli scrittori possono arrivare a essere dei maestri per i lettori. E lo scrittore non necessariamente deve aver studiato, anzi direi che non è necessario, può essere addirittura controproducente.

Cosa ti ha spinto a raccontare, è esistito un fuoco, un daemon? E cosa ti piace dello scrivere: il pensiero, il creare l'intreccio, l'idea?

Dipende se parliamo di romanzi o saggi, perché sono due mestieri un po' differenti. Quello dei romanzi è un ecosistema molto particolare, il cui funzionamento sarebbe lunghissimo da spiegare. Ormai col tempo l'ho capito abbastanza, però è un ecosistema molto sofisticato e affascinante. Quando scrivo di cose che so, invece, come in The Game, ne L'anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, ne I barbari, o come in molti articoli che ho scritto, oppure quando ho fatto spettacoli tipo l'Iliade, Tucidide, Palamede, in questi casi qua funziona una cosa che sentivo fin da giovane, ovvero che se non convertiamo il sapere in una narrazione emozionante questo sapere muore, è inutile, stiamo praticamente portando in giro dei cadaveri, che è quello che succede spesso a scuola, ma non sempre perché quando il professore è in grado di mantenere vivo il pezzo di passato di cui sta parlando, invece sta trasferendo un animale vivo. A me questa roba di trasferire del sapere in forma di narrazione, non perdendo nulla dell'energia e dell'intensità che aveva in origine, è stata una passione che ho avuto fin da giovane e la sola televisione che ho fatto negli anni 90 era tutta questa cosa qua, sostanzialmente, ma vale anche per tutti i miei articoli che ho scritto sui giornali, insomma vedi proprio un filo rosso che arriva fino a Tucidide, non ho quasi mai smesso, ho sempre cercato di fare questo e amo molto anche quelli che lo fanno. Una formula che ho usato spesso è che è difficile che racconti qualcosa, spesso è il racconto di un uomo che cerca di scoprire qualcosa su una certa cosa.

Alessandro Baricco (ph Anna La Naia)
Alessandro Baricco (ph Anna La Naia)

Interessante, perché in un'intervista a Simonetta Sciandivasci de La Stampa hai detto che ami "cercare di capire". C’è qualcosa che provi a capire, che ti smuove e appassiona, ma per cui ancora non hai trovato ancora la chiave?

Intanto tante persone, tante persone che amo, che ho amato e son rimaste degli enigmi per me. Ma quello riguarda il mio privato. Se parliamo di fette del sapere, beh la meccanica quantistica, è pazzesco. O anche l'intelligenza artificiale. Io covo questo capitolo in più di The Game, dedicato all'intelligenza artificiale, ma mi rendo conto che studiarla è faticosissimo e te lo dice uno che comunque è riuscito a studiare e a spiegare il web, il digitale, tante cose che sulla carta erano molto difficili, però questa ha una soglia di difficoltà veramente alta.

Sei un intellettuale che è stato amatissimo, ma anche molto criticato, che rapporto hai con la critica?

Non c'è una risposta univoca, ci sono state delle stagioni: quando ero giovane potrei riassumerti che ero in una forma di ascolto, li stavo ad ascoltare, poi quando è arrivato il successo tutto si è molto inasprito, è stata la grande stagione del conflitto, anche del disprezzo, da parte mia e da parte loro, un disprezzo reciproco. Ormai da tempo sono in una stagione in cui è tutto molto più morbido, sono delle voci lontane che ogni tanto mi fanno piacere, ogni tanto ascolto come dei suoni che vengono dalla foresta. Sì, cosa poi faccia scattare l'una o l'altra stagione è difficile dirlo: dalla prima alla seconda è stato sicuramente il successo, perché questo rende impervio sia a noi, sia a loro, vivere con equilibrio il rapporto. Però come siamo usciti da lì per poi defluire in questa fase più morbida e più di rispetto reciproco, quello non me lo ricordo, è stato un processo molto lento in cui hanno incominciato a sparire delle parole molto aggressive, gli articoli sono diventati un po' più lunghi, un po' più corti, insomma, non me ne sono quasi accorto.

È cambiata la critica?

Sono cambiato anch'io, però non rinnego la stagione dello scontro. Io ad esempio ho risposto ai critici, cosa che chiunque ti direbbe di non fare mai. Ho fatto rissa spesso, non capisco perché uno scrittore debba rimanere mite ad assistere allo sconcio di quello che fanno. Se uno ha il coraggio, la schiena dritta e la capacità di farlo bene, ha tutti i diritti di scontrarsi, dire la sua, e io l'ho fatto ripetutamente. Se riguardo i dibattiti eravamo da tutte e due le parti esagerati, se vuoi, però, erano duelli d'alto livello, c'erano personaggi come Giulio Ferroni, Pietro Citati, Andrea Cortellessa, Giovanni Raboni, cioè stiamo parlando di persone che mi hanno detestato con un'intensità notevolissima.

Però erano teste tali…

Non gli posso nemmeno riconoscere adesso, a distanza di tempo e con tutta la mitezza del caso, una vera onestà intellettuale questo no, perché non ce l'avevano, però si parla di persone – non tutte, ma quasi – di livello molto alto. In fondo io non riesco a leggere Proust se non tradotto da Raboni.

C'è stato qualcosa che ti ha ferito, di quelle cose? O qualcosa con cui, poi, hai fatto pace?

Guarda, c'è una stagione della vita in cui se non ti ferisci davanti a certe cose sei stupido, o sei morto o sei troppo pavido. Per cui sì, mi hanno ferito e sono contento di sapere che ero una persona così viva da vedere il sangue che correva.

Col senno di poi te lo vedo raccontare anche con un certo divertimento, quasi fosse una sfida intellettuale.

C'è chi fa quello ogni giorno della sua vita, in uno stillicidio di battaglie fatto di una riga qua, una riga là, una presentazione qui, un voto a un premio là. Io non sono mai stato così, cioè, io facevo la mia strada completamente, poi c'era un giovedì in cui prendevo il computer, lo aprivo e dicevo a Ferroni cosa pensavo di lui. Poi il venerdì stavo di nuovo a fare i miei lavori con assoluta determinazione; in questo francamente mi piace che quel tipo di personaggio, non ho perso molto tempo dietro queste cose, lo dico francamente, d'altra parte se no, non avrei fatto tutte le cose che ho fatto. Va bene così, dai, non ho grandi rimpianti, non ho aggredito malamente mai nessuno.

Hai attraversato la Cultura italiana per un periodo lunghissimo, quali sono stati i momenti più formativi, più vivi? Quelli che ti sono serviti e ti hanno dato la scintilla?

Gli anni 90 sono stati qualcosa di molto significativo. Capisco che adesso le persone più giovani di me non riescano a capirli bene, però in quegli anni sono nate tante di quelle cose che poi hanno fatto un po' la storia di questo Paese, nel nostro mondo della Cultura, degli Spettacoli eccetera, evidentemente c'era qualcosa che neanch'io so spiegare. Certamente c'era ottimismo perché fondavamo società, io ho fondato una scuola con dei soldi che non avevo, me li sono fatti prestare, ma non mi sarebbe mai venuto in mente che non sarebbero tornati quindi probabilmente la cornice intorno a noi era diversa da quella di oggi. Però non so, c'era anche qualcosa in noi, in tutti, c'era molta voglia di costruire, di venir fuori forse dagli anni 80, che erano stati anni un po' vuoti. Volevamo comunque mettere dei mattoni uno sull'altro, sono stati anni in cui c'era anche una certa libertà.

Mi fai un esempio?

Quando spiegai come volevo fare Pickwick, la mia trasmissione dei libri, i dirigenti RAI pensarono fosse strana, però me l'hanno fatta fare. Quando mi presentai in riunione e come scaletta avevo un foglio scritto a mano con quattro righe, ricordo che rimasero tutti straniti, perché erano abituati a delle scalette lunghe, più complete, però hanno accettato e via. Non che adesso non ci sia libertà, non credo, però c'era apparentemente molta più disponibilità. Dopodiché ho trovato molto formativo il periodo del lockdown, della pandemia, ma mi è anche piaciuta l'ondata di denaro che è fluita sul mio mondo nei primi anni 2000, prima della crisi del 2009 nel mondo dei libri girava denaro in maniera notevole, e ha permesso un sacco di progetti a perdere: non è che siamo diventati ricchi, però in quel momento c'era una leggerezza economica di cui molti di noi hanno anche approfittato. E poi tante cose legate alla mia vita personale: incontri, matrimoni, separazioni, amori, figli, anche quelli sono sommovimenti carsici che la gente non vede da fuori, però poi si chiede come mai Abel è stato scritto così, perché City, ai tempi, lo scrissi in quel modo e vaglielo a spiegare, spesso sono anche l'incrocio fra delle ragioni di poetica, di crescita professionale ma anche di correnti carsiche che vengono dalla vita privata. E quello non è nemmeno il caso di spiegarle diciamo, però sono stati molto molto importanti.

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