Alda Merini moriva 10 anni fa: alcuni dei suoi versi più belli
Il 1 novembre 2009 moriva, a 78 anni, Alda Merini. Dieci anni sono trascorsi da quando una delle voci più dirompenti del Novecento si è spenta: ma nonostante la scomparsa, l’immensa opera della poetessa meneghina ha ancora una forza e una vivacità straordinarie. Raccontare in poche righe tutto ciò che Alda Merini ha vissuto, ed è stata, sarebbe impossibile. Per questo, in occasione di questi primi dieci anni senza di lei, a parlare sono nuovamente i suoi versi.
Alda Merini, la poetessa della follia
Sono nata il ventuno a primavera
Ma non sapevo che nascere folle
Aprire le zolle
Potesse scatenar tempesta.
Leggere le sue poesie vuol dire entrare, nel modo più diretto e profondo, nella sua vita. Ma il valore dei versi di Alda Merini non è riconducibile esclusivamente alla sfera biografica, anzi. Come amava spiegare Maria Corti, critica letteraria ed intima amica della poetessa, nella sua scrittura “vi è prima una realtà tragica vissuta in modo allucinato in cui lei è vinta; poi la stessa realtà irrompe nell’universo della memoria e viene proiettata in una visione poetica in cui è lei con la penna in mano a vincere”. La vita, con tutto il suo peso, è stata per Alda Merini un punto di partenza e un punto di arrivo della sua poesia, così come la malattia e la solitudine sono stati veleni ed antidoti della propria condizione esistenziale.
Una condizione che, fin da bambina, Alda Merini ha avvertito come peculiare per se stessa. È proprio lei a ricordarsi come una “ragazza sensibile e dal carattere malinconico, piuttosto isolata e poco compresa dai suoi genitori ma molto brava ai corsi elementari”, che però ben presto farà i conti con le prime “ombre della mente” e culminate con una diagnosi di disturbo bipolare che la porteranno a vivere l’inferno in terra dell’ospedale psichiatrico.
In fondo un poeta ha anche qualcosa di istrionico e di folle. Per questo il manicomio è stato per me il grande poema di amore e di morte. Ma anche questo luogo oggi è distante. Mi capita a volte di rivederlo in sogno. Io sogno tantissimo. E tra i sogni ne ricorre uno: sono dentro a un luogo chiuso, e io che cerco le chiavi per uscire. Forse sono mentalmente ancora in quel luogo che mi ha ucciso e mi ha fatto rinascere. Mi sento una donna che desidera ancora. Oggi per esempio vorrei che qualcuno mi andasse a comprare le sigarette. Non ho mai smesso di fumare, né di sperare.
Alda Merini è ormai riconosciuta, con la sua monumentale opera che per oltre quarant’anni ha parlato, raccontato, cantato e sublimato la propria condizione di “diversa”, come una delle voci più forti nel dar voce a quella cosa oscura, intima, spaventosamente comune, che si chiama “follia”. Nessuno, meglio di lei, ha saputo guardare alla realtà di una vita considerata fuori dal reale, riuscendo a trasformare in poesia, e dunque in luce, l’oscurità che in fondo è celata, seppur sopita, in ognuno di noi.
La mia poesia è alacre come il fuoco,
trascorre tra le mie dita come un rosario.
Non prego perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnananna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce.