Al Parco Archeologico di Cuma sbarca Efestoval, il festival dei vulcani di Mimmo Borrelli
Viene facile l'assonanza tra l'immensa caldera dei Campi flegrei e il vulcanico ideatore e direttore artistico di "Efestoval", quel Mimmo Borrelli che gran parte del mondo teatrale addita come uno dei più eccellenti, se non il più eccellente, drammaturgo contemporaneo. A parte le assonanze, è un dato di fatto che "sotto il vulcano" sta per partire con la prima di domani, mercoledì 5 settembre, alle ore 20:30 una nuova edizione del festival dell'attore, regista e scrittore flegreo che la scorsa stagione teatrale ha portato il dramma "La cupa" in scena con enorme successo di pubblico e critica. E che, annualmente, dedica alla sua terra infuocate giornate di teatro.
Si inizia domani, dunque, con "Malacrescita" dello stesso Borrelli al Parco Archeologico di Cuma – Città bassa, monologo tratto dalla tragedia: “La madre: ’i figlie so’ piezze ’i sfaccimme” (Premio Testori 2013). Musiche in scena di Antonio della Ragione, oggetti di scena, elementi e spazio scenico Luigi Ferrigno e disegno luci Gennaro Di Colandrea. Nella "Malacrescita" Mimmo Borrelli racconta con la sua lingua popolare e letteraria la storia di Maria Sibilla Ascione. Figlia di camorrista e di camorrista innamorata, è una Medea contemporanea. Intossicata dalle esalazioni della terra dei fuochi, cerca vendetta contro un Giasone che risponde al nome di Francesco Schiavone “Santokanne”.
Non poteva che raccontarsi davanti l’Acropoli di Cuma, la storia, o meglio il “cunto”, di Maria Sibilla Ascione, Madonna e Sibilla cumana, che prende forma attraverso le parole e i ricordi dei suoi due figli gemelli e scemi. L’incontro tra lo spettacolo e questo luogo “perfetto” è stato possibile grazie alla collaborazione del Parco Archeologico dei Campi Flegrei. Narratori delle folli trame insanguinate della tragedia sono proprio i figli, nati da parto gemellare, che la madre non uccide ma rende scemi, avvinazzandoli invece di allattarli, che lascia vivere ma abbandona come rifiuti, come le discariche innaffiate dal percolato. I due gemelli, come cani abbandonati alla catena dei ricordi, rivivono i fatti tra versi, rantolii, filastrocche, rievocando gli umori, le urla, i mormorii della loro aguzzina, in un ossessivo teatrino quotidiano.
Nel testo originale è la madre sopravvissuta a raccontare. Qui, invece, capovolgiamo il punto di vista e dunque la drammaturgia della scena, immaginando che tutti i protagonisti di questa storia siano ormai defunti e gli unici sopravvissuti, agonisti giullari, diseredati, miserabili, siano proprio i due figli, i due scemi che dementi rivivono i fatti, rinchiusi tra le pareti di un utero irrorato di solitudine. L’unico gioco rimane e consiste nel rimbalzarsi, tra gli spasmi della loro degenerata fantasia, sul precipizio di un improvvisato altare tombale di bottiglie di pomodori e vino eretto in nome della loro mamma: ’u cunto stesso, la placenta, l’origine della loro malacrescita.