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Addio a Shozo Shimamoto, il performer della pittura

È morto l’artista giapponese cofondatore del gruppo Gutai. Per più di mezzo secolo ha animato la scena artistica internazionale con le sue audaci sperimentazioni.
A cura di Gabriella Valente
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Shozo Shimamoto

Si è spento Shozo Shimamoto. La sua è stata una carriera articolata, ricca di eventi e di ricerche innovative, una carriera lunga e varia che lo ha visto lavorare fino agli ultimi anni della sua vita: al 2011 infatti risalgono le sue ultime performance presso il Moderna Museet di Stoccolma e al 2012 si data la sua ultima personale, ospitata dalla Axel Vervoordt Gallery di Anversa.

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Nato ad Osaka nel 1928, Shimamoto esordisce negli anni ’50 in Giappone, ma ben presto acquista un’indiscussa fama internazionale, arrivando a lavorare ed esporre in tutto il mondo, da Tokyo a New York, da Parigi a Beijing, da Los Angeles a Venezia. Personaggio originale, con un percorso diviso tra Oriente e Occidente, nel 1995, seguendo la tradizione buddista, organizzò il proprio ‘funerale in vita’ con un rito in cui dodici monaci recitavano un sutra. Impegnato anche nel sociale, è stato presidente di Art Unidentified, gruppo di artisti giapponesi che propugnavano un lavoro libero da vincoli e costrizioni, e della Able Art Japan, un’associazione per artisti disabili. Nel 1996, per le sue numerose attività pacifiste, fu proposto come candidato al Premio Nobel per la pace.

Mostra Oriente e Occidente

Vero artista d’avanguardia, Shimamoto è stato pioniere di ricerche di vario genere nel campo della pittura, della performance, dell’azione, del video, della fotografia. Nel 1954 fonda insieme con Jiro Yoshihara il gruppo Gutai, movimento d’avanguardia giapponese che ha sovvertito l’idea tradizionale dell’arte del proprio paese collegandola alle più avanzate sperimentazioni internazionali. Con l’intento di oltrepassare l’idea convenzionale dell’arte come elemento decorativo, lineare e composto, gli artisti del gruppo Gutai sottolineano il fascino della materia nelle sue forme disfatte, alterate, distrutte, purché concrete ed evidentemente corporee: il nome stesso del gruppo, Gutai, proposto da Shimamoto, ha a che fare con la differenza tra materia e spirito, fa riferimento al concetto di incarnazione, al dare corporeità e concretezza alle cose. È da queste concezioni che nascono i primi lavori del maestro, ideatore di procedimenti artistici singolari: per esempio, la sua prima opera esposta nell’ambito del gruppo Gutai fu una lamiera perforata da tanti piccoli buchi, che nel buio una lampada illuminava da dietro a creare un tangibile cielo stellato.

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È già nel 1956 che il nostro artista mette in scena la tecnica del bottle crash, pratica caratterizzante di tutto il suo lavoro: collocata una grande tela sul pavimento, vi posiziona al centro un masso contro il quale lancia bottiglie piene di pigmenti e vernici di diversi colori. Il risultato è straordinario e imprevedibile: un’esplosione di colori vivaci, mescolati a frammenti di vetro che conferiscono movimento all’immagine. Da quel momento Shimamoto ha declinato questa pratica in varianti sempre nuove, per esempio quando ha lasciato cadere da una mongolfiera dei palloncini pieni di colore che scoppiavano su una superficie di fogli di giornale (Francia, 2000); o quando, nell’evento ‘Un’arma per la pace’ (piazza Dante, Napoli, 2006), si è lasciato sollevare da una gru per gettare delicatamente dei colori, colpendo anche il pianoforte del compositore Charlemagne Palestine che accompagnava lo spettacolo; o ancora quando ha lanciato direttamente il colore su tele disposte in terra e su contrabbassi e spartiti musicali posti ai lati delle tele (Chiostro della Certosa di San Giacomo, Capri, 2008).

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Con questa nuova e sovversiva pratica, in bilico tra caso e intenzione, Shimamoto, pur rimanendo pittore, ha innovato la pittura stessa da un punto di vista tecnico e concettuale: egli è riuscito a “liberare il colore dal pennello” e ha bandito lo strumento tradizionale della pittura, che fornisce una stesura troppo sottile e accurata. Il colore invece ha bisogno di materia, di corpo, quindi anche di grumi, screpolature ed erosioni. Così, l’originale modo di dipingere dell’artista giapponese che lanciava i colori sui supporti ha progressivamente trasformato la pittura in azione e quindi in performance, fino a fondare un ‘teatro della pittura’: in eventi spettacolari, sempre più in grande scala, il pubblico di Shimamoto ha potuto assistere a performance eccezionali, riconoscendo l’opera d’arte sia nell’azione del pittore-performer, sia negli oggetti creati durante le performance.

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Shozo Shimamoto è stato tra i maggiori esponenti della mail art dagli anni ’70 in poi, quell’arte postale che intendeva creare un network di artisti, opere o azioni artistiche basato sulla corrispondenza postale. La pratica della mail art permetteva progetti collettivi idealmente infiniti, una collaborazione creativa e un produttivo scambio di opinioni ed opere. Essa si basava sulla comunicazione potenzialmente illimitata e aveva il potere di creare relazioni e ponti tra culture diverse, come tra Oriente e Occidente, rappresentando una modalità ideale per gli obiettivi relazionali e comunicativi di Shimamoto.

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“L’arte è stupire”, diceva. È fare qualcosa di altro rispetto a ciò che le tradizioni o le situazioni suggeriscono. È comunicare, trasmettere messaggi liberamente. I suoi messaggi, sotto forma di performance, azioni, disegni o lezioni, sono sempre stati legati alle sue attività pacifiste. Poetico, profondo e suggestivo è il suo progetto della “Dimostrazione di Pace” nella città di Nishinomiya, opera che è insieme monumento e performance, dove una pedana di cemento diventa bersaglio di esplosioni di colore: dal 2000 ad oggi, ogni anno l’artista ha rigenerato il grigio del cemento con lanci di bottiglie di colore, a significare che nell’anno trascorso il Giappone non era stato coinvolto in alcuna guerra. Qui come altrove, il colore di Shimamoto sancisce la pace, celebra i luoghi, crea la memoria.

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