Nella seconda metà dell'Ottocento, in francese, emerge la parola ‘gaffe', e in una trentina d'anni (primi del Novecento) la recepiamo in italiano. La sua origine, dibattuta, pare ormai assodata: deriva da ‘gaffe', di probabile origine germanica, nel significato di ‘gancio'. Noi conosciamo l'omologa ‘gaffa', quella sorta di arpione con cui vengono issati a bordo dei pescherecci i pesci più pesanti. Domanda immediata: che c'entra la gaffa con lo sproposito? Risposta semplice ma non banale: la chiave di volta è l'indelicatezza, che lega in maniera un po' volgare, un po' esagerata (ma senza dubbio efficace) i gesti cruenti con cui il pescatore ghermisce la preda all'espressione inadatta, che ferisce, che strappa la situazione. Per la cronaca, come alternativa italiana (quanto è rétro dare le alternative italiane ai francesismi) è spesso proposto il settentrionalismo ‘topica', della stessa famiglia del verbo ‘toppare', senz'altro meglio noto. Proposta più stravagante e ricercata che seriamente percorribile.
Ora, la gaffe è qualcosa di abbastanza fine. Non è un semplice errore: se pronuncio un congiuntivo fantasioso non è detto che io incorra in una gaffe. Potremmo sintetizzarla come un errore vergognoso, che genera imbarazzo. Se pronuncio un congiuntivo fantasioso nella foga di un'arrabbiatura difficilmente creerò imbarazzo, se lo pronuncio fra persone che di norma non usano il congiuntivo potrei perfino apparire dotto. Solo quando quell'errore spicca nel suo essere maldestro diventa una gaffe. In generale solo quando un'azione, una parola, un comportamento risultano inadatti, inopportuni, e solo quando con questi risultati generano imbarazzo come manifestazione vergognosa di goffaggine, inettitudine, distrazione, siamo davanti a una gaffe. In questo si presenta come una parola di una precisione complessa che i suoi sinonimi più semplici non conoscono, non lo sbaglio, neutro e occasionale, non l'errore, più radicato e serio, non lo scivolone raffinato del lapsus, il disorientamento dell'abbaglio, l'impatto della cantonata, la gentilezza dell'equivoco.
Ogni parola straniera, inserita in un discorso, genera una sfocatura di significati più o meno marcata. Oggi la gaffe la conosciamo bene, ma quando è arrivata da noi questa sfocatura dava un effetto scherzoso alla gaffe: tutti i sinonimi nostrani paiono più seri. Ma questo punto va inteso molto bene, perché scherzo e leggerezza non sempre si accompagnano. Il tono scherzoso della gaffe è tutt'altro che innocuo. Se c'è la gaffe, c'è qualcuno che ride della gaffe, di chi l'ha fatta. Ed è questo il problema sottile e pesante di questa parola.
Bollare come gaffe una svista, uno sproposito, ha come effetto un allontanamento: crea una cesura fra te che commetti l'errore (incolto, disattento, goffo) e io che ne rido (colto, preciso, intriso di savoir faire). La risata della gaffe è acre, moralmente sgangherata: è questa che esercita la vergogna, che crea imbarazzo, che esclude. Il fatto che questa parola sia così echeggiante in politica e sui giornali è un brutto segno, un segno di divisioni, di ostracismi reciproci, di elitarismi contrapposti alla barbarie. Errori, sbagli, lapsus, abbagli, cantonate innocenti, tutto si può riprendere.Ogni scivolata può essere ripresa con amichevolezza e senza sbavature, senza ridacchiare dando di gomito e dicendo "Che gaffe!".