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A che velocità stavano andando le auto quando si sono schiantate?

Un esperimento affascinante sul potere delle parole.
A cura di Giorgio Moretti
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A nove persone vengono mostrati alcuni video di incidenti d’auto. Alla fine di ogni video viene loro consegnato un questionario, che consiste in alcune domande su quanto appena osservato. Il fulcro del test è questa domanda: «A quale velocità stavano andando all’incirca le auto quando si sono urtate?» (In inglese, «About how fast were the cars going when they hit each other?») Domanda banale, no? Richiede una valutazione non facile, ma semplice.

Ma ad altre nove persone, dopo aver visto i medesimi video, viene chiesto «A quale velocità circa stavano andando le auto quando si sono schiantate?» (smashed). Ad altre nove «A quale velocità circa stavano andando le auto quando si sono scontrate?» (collided), e simili domande vengono poste ai gruppi successivi, solo sostituendo il verbo finale con «hanno sbattuto» (bumped) e «si sono toccate» (contacted). Al solo cambiare del verbo, cambieranno le valutazioni delle persone sulla velocità delle auto?

Si tratta di un esperimento piuttosto datato, risalente al 1974, degli psicologi Elizabeth Loftus e John Palmer. Il risultato ne ha fatto una pietra miliare della psicologia della testimonianza: al variare del verbo scelto per la domanda, la stima media della velocità cambia, fra «schiantare» e «toccare», di circa 15 km/h (su velocità reali che andavano dai 30 ai 65 km/h). Anche la percezione di vetri rotti nell’incidente aumenta sensibilmente.

I risvolti di questa osservazione sono chiari e dibattutissimi, in ambito forense: durante l’esame di un testimone, scegliere la domanda giusta può orientarne la risposta nel senso voluto. E non stiamo parlando, in questo caso, solo delle domande-suggerimento, che insinuano ad arte elementi su cui la risposta sarà inevitabilmente basata: se domando «Di che colore era il tatuaggio del rapinatore?» do per scontato – e faccio dare per scontato all’interrogato – che il rapinatore avesse un tatuaggio; il nostro codice di procedura penale (art. 499, co.3) sancisce l’illegittimità delle domande-suggerimento quando sono rivolte, nell’esame diretto, al testimone da noi citato, mentre sono permesse nel controesame, quando la credibilità del testimone della controparte e i fatti che ha affermato devono essere passati a un vaglio spietato.

L’esperimento della Loftus ci parla però di qualcosa di ancora meno avvertito. I diversi verbi – che denotato grossomodo lo stesso concetto, ma con una connotazione d’intensità diversa – sono portatori di una sottile ma sensibile integrazione dell’informazione che sta nel ricordo dell’interrogato, che ne cambia la realtà. E questo fenomeno va ben al di là delle pareti dei tribunali.

Tizio ha mostrato verso di te una certa rabbia per un tuo comportamento. Se nel raccontarlo ad altri in tua presenza dico che «Tizio si è incazzato di brutto con te» o che «Tizio con te si è alquanto inalberato», non solo chi mi ascolta si farà due idee profondamente diverse, ma anche nella tua mente il fenomeno risulterà amplificato o minimizzato. E un discorso analogo si può fare se, nel raccontare di come Caio mi ha risposto male in pubblico, dico «Ha avuto un’uscita scortese» oppure «Ha fatto lo stronzo».

Gestire le quantità nella lingua non è solo una questione di raffinatezza, è una questione di potere. Amplificare o minimizzare ha effetti creativi sulla realtà, su noi stessi e su chi ci ascolta: l’amplificare incendia, aggrava, mostra palesemente e con trasporto, e muove a scapito del controllo e della misura; il minimizzare smorza, raffredda, occulta, e stringe il dominio sulla situazione.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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