Totò ebbe tre funerali. Il 15 aprile del 1967, poco dopo esser morto tra le braccia dei suoi cari, il corpo di Totò fu portato nella Basilica di Sant’Eugenio nel quartiere Pinciano di Roma per una benedizione, dopodiché la salma iniziò il suo viaggio di ritorno verso Napoli, la città-madre, da cui tutto era iniziato e dove una massa impensabile di persone attendeva il ritorno a casa del principe de Curtis. Nei giorni successivi fu celebrato in maniera ufficiale nella Chiesa del Carmine e successivamente, qualche settimana dopo, in maniera ufficiosa nella chiesa di San Vincenzo nel quartiere Sanità, dove Totò era nato nel 1898.
Questa storia dei tre funerali, al di là degli aspetti leggendari, avrebbe di certo strappato una risata al grande comico, che dell'accumulazione e della reiterazione di una parola, una frase, un evento, faceva una delle strategie della sua arte: l'immortale arte del far ridere. Il pubblico, certamente, ma anche i migliori intellettuali e registi della sua epoca, come ha giustamente evidenziato Goffredo Fofi in un recente articolo su Avvenire, tra cui Mario Monicelli, Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Roberto Rossellini e Alberto Lattuada.
Non fu amato, invece, dagli intellettuali che non ne riconobbero il caos anarchico, la risata contro i potenti, complici alcune discutibili scelte dello stesso principe de Curtis, certamente, che probabilmente per soldi accettò di fare tanti, troppi film "commerciali". Ma il potere anarchico del suo corpo, delle sue battute, del suo modo di sbeffeggiare i potenti e ricordare agli italiani ciò che gli italiani, all'indomani della guerra volevano dimenticare, cioè la fame da cui venivano, non venne mai meno. Questo è il punto: Totò conosceva la miseria, conosceva la fame. E, come lui stesso ha detto una volta, la miseria è alla base di ogni possibilità del comico:
Io so a memoria la miseria, e la miseria è il copione della vera comicità. Non si può far ridere se non si conoscono bene il dolore e la fame, il freddo, l'amore senza speranza, la disperazione della solitudine di certe squallide camerette ammobiliate alla fine di una recita in un teatrucolo di provincia; e la vergogna dei pantaloni sfondati, il desiderio di un caffellatte, la prepotenza esosa degli impresari, la cattiveria del pubblico senza educazione. Insomma, non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita.
Un lascito fondamentale, che oggi a mezzo secolo di distanza, in un mondo abitato da artisti narcisisti e perfettamente a loro agio nei meccanismi del mainstream, dovrebbe ricordare a tutti che "dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior". E il fiore della risata è destinato a restare immortale, come Totò, eterna maschera che ci fa ridere ancora oggi.